Seduta del 3 maggio 1973

L’ offensiva terroristica si abbatte sul Msi-Dn; è completamente assente l’azione repressiva dello Stato. Nell’aprile del 1973 un gravissimo episodio si verifica a Roma: ultrà comunisti appiccano il fuoco all’abitazione di Mario Mattei, segretario della sezione missina romana del popoloso quartiere di Primavalle. Nel rogo muoiono due figli del dirigente di partito: Virgilio, apprezzato militante, e il piccolo Stefano. La strage suscita profonda commozione nel Paese. Ecco come Giorgio Almirante replica alla Camera all’insoddisfacente risposta ministeriale sui gravissimi fatti di Primavalle .
Il rogo in casa Mattei a Primavalle

ALMIRANTE:” Signor Presidente, ringrazio lei personalmente e spero di poter dare atto alla Presidenza come istituto delle nobili parole di cordoglio pronunciate oso ritenere o in nome di tutta l’Assemblea, dei molti banchi vuoti e dei pochi banchi occupati negli altri settori, in quanto oso sperare che tutta l’Assemblea, i presenti e gli assenti, consentano con la ferma deplorazione e condanna dell’ incivilita. Questo è il termine che ella ha usato, è il termine che è stato usato dal signor ministro dell’Interno, è un termine che mi sono permesso di usare io nel corso delle onoranze funebri ai due fratelli Mattei in un momento che, se me lo consente, signor Presidente, se me lo consentono i colleghi presenti, è stato senza alcun dubbio uno dei più duri e sofferti della mia esistenza. Così come ritengo sia questo un grave momento, perché non mi piace essere costretto a scendere a considerazioni politiche quando tutti insieme, e soprattutto noi, dovremmo guardare l’orrendo rogo di Primavalle soltanto in termini di condanna, al di là e al di sopra delle parti. Non posso per altro fare a meno e penso che ella, signor Presidente, me ne darà atto e che me ne dia atto tutta la pubblica opinione italiana di replicare al Governo nella persona del ministro dell’Interno; di replicare per quanto concerne una sia pur molto sommaria analisi dei fatti che hanno preceduto e che hanno seguito la strage di Primavalle; di replicare per quanto concerne talune considerazioni contenute nella nostra interpellanza alle quali ha risposto il ministro dell’Interno. Quanto ai fatti, signor ministro, non basta affermare, come ella ha fatto poco fa, che in questo dopoguerra si sono consolidati gli istituti della democrazia in Italia. Bisogna dimostrarlo. Non basta essere i rappresentanti legittimi in termini democratici del Governo e, quindi, dello Stato; bisogna esercitare la propria funzione di controllo, di prevenzione, di educazione. In data 12 aprile il quotidiano del nostro partito pubblicava con evidenza una nota relativa ad un precedente attentato alla sezione di Primavalle. È sufficiente leggere il titolo di questa nota per rendersi conto delle pesantissime responsabilità, per la mancata vigilanza e prevenzione, cui sono andate incontro le pubbliche autorità. Il titolo dice: «Dopo l’attentato alla sezione di Primavalle – Ricercare i responsabili e potenziare la vigilanza – Interrogazione in Parlamento dell’onorevole Giulio Caradonna – Comunicato della direzione provinciale del Msi-Destra Nazionale – Ordine del giorno del gruppo consiliare della destra nazionale della regione Lazio». Vi è una fotografia relativa alla sezione di Primavalle devastata dall’esplosione, ma vi è soprattutto, nel comunicato della direzione provinciale del nostro partito, un passo che io mi permetto di sottoporre alla vostra civile attenzione e sensibilità; un passo che si riferisce ad un precedente attentato di circa un anno fa, nel corso del quale otto nostri giovani, che stavano discutendo sui problemi della nostra gioventù, nel chiuso di una sede di via Noto, sono stati arsi vivi. Due di loro sono rimasti degenti presso quello stesso ospedale di Sant’Eugenio ove adesso giace Mario Mattei, l’uno per sei mesi, l’altro per due mesi, mentre gli altri se la sono cavata con ustioni di minore gravità. La tecnica dell’assalto è stata a un di presso la medesima; in quel caso vennero usate bottiglie molotov, ma bottiglie molotov incatramate, di guisa che il catrame così mi hanno spiegato allora i nostri giovani si appiccichi alle carni ed il fuoco ustioni il più profondamente possibile. Questo precedente non fece gran chiasso, perché si trattava delle carni bruciate di otto giovani del Movimento sociale italiano o, come suol dirsi, di neofascisti o di fascisti; e gran chiasso (lo si vede dallo spettacolo odierno di quest’aula, lo si è visto anche dalla mancata presenza del Presidente titolare, lo si è visto dal tentativo compiuto dal Governo, e per esso dal ministro dell’Interno, di ritardare questa discussione) non hanno fatto nemmeno le carni bruciate di Virgilio o di Stefano Mattei, perché si tratta di carni «missine» o, come volgarmente dicesi, fasciste o neofasciste. Misure di prevenzione furono da noi richieste prima delle giornate del 15, 16 e 17 aprile, e furono da noi richieste non già in relazione alle voci che a Primavalle si diffusero la sera prima, o la notte prima o la sera stessa del rogo, ma in relazione ai precedenti, reiterati attentati, i quali tutti avevano avuto (le autorità non hanno mai potuto smentirci, e nessuno dei nostri comunicati ufficiali non è stato mai smentito) una matrice chiarissima, perché gli aggressori in quelle occasioni si erano avvalsi o del lancio di pietre contro la sezione, inizialmente, o del lancio di bottiglie molotov, giungendo in talune serate a stringere d’assedio la sezione, ed appartenevano a gruppi extraparlamentari di sinistra. Quando noi, quindi, parliamo ora della matrice politica del rogo di Primavalle, siamo costretti a parlarne, dolorosamente (e preferiremmo non farlo, perché ci rifiutiamo di pensare che belve umane siffatte esistano in qualunque settore del Parlamento o in qualunque settore politico al di fuori del Parlamento), perché i fatti, che erano a conoscenza, nelle loro origini, delle autorità, ci costringono ad andare alla ricerca, all’individuazione facilissima, ovvia addirittura della matrice politica che ha ispirato e portato a termine questo orrendo, bestiale attentato. I fatti si riferiscono anche al comportamento della polizia giudiziaria, e, mi duole dirlo, della magistratura inquirente. Il signor ministro è stato autorizzato a dire alcune cose, nonostante l’esistenza del segreto istruttorio che (e il signor ministro lo vorrà riconoscere, perché al riguardo vi è un’iniziativa molto precisa degli avvocati della parte civile, di cui danno notizia i giornali di questa mattina) è stato largamente violato da certa stampa, abituata da sempre a violarlo. Mi riferisco, tanto per fare un esempio, ad una nota apparsa su L’Espresso, a firma, se non erro, di Catalano. Il signor ministro, dunque, è stato autorizzato a riferire alcuni dati, ed io, rispettoso della magistratura come istituzione, non andrò oltre quei dati. Quando però il signor ministro ci dice che le indagini sono state stringenti, mi consenta di fargli rilevare che lo hanno messo in condizione grazie a quella comunicazione del Ministero di grazia e giustizia di dire una ridicola assurdità: «stringenti»! Signor ministro, la prima perizia nella casa della famiglia Mattei, nell’apparta­mentino se così si può chiamare o in quello che ne rimane, è stata compiuta l’altro giorno. Ma in precedenza, avendo la magistratura inquirente falsamente fatto conoscere che erano stati apposti i sigilli (che sembra non fossero apposti o che comunque non hanno funzionato), perizie «giornalistiche», se così posso chiamarle, erano state compiute e i responsabili di tali perizie non avevano esitato a dirlo. Leggo da Il Messaggero di questa mattina: «Tali misurazioni» (ci si riferisce alle misurazioni nell’appartamento che avrebbe dovuto essere sigillato e periziato penso immediatamente dopo il rogo) «da noi effettuate pochi giorni dopo l’incendio, servono per capire», eccetera. I giornalisti, taluni giornalisti (non solo quelli de Il Messaggero, anche quelli de l’Espresso, che hanno pubblicato informazioni analoghe) hanno avuto libero accesso all’appartamentino del rogo, mentre coloro che avevano il dovere di compiere immediate perizie e di impedire intrusioni non adempivano l’un dovere né l’altro. E c’è di più: «stringenti», le indagini? Se noi siamo bene informati, senza bisogno di far perizie, a nostra volta, esistono, entro pochi metri, entro poche decine di metri dall’abitazione della famiglia Mattei, sei sedi o circoli di gruppi extraparlamentari di sinistra. Non risulta che una tra queste sedi o uno tra questi circoli sia stato visitato da chi doveva credo indirizzare le indagini «anche» in quella direzione. Guardi a che punto arrivo: «anche», o almeno, o soprattutto, o soltanto. Arrivo a dire «anche» in quella direzione . Non una tra quelle sedi è stata perquisita: e ormai penso che vi possiate dispensare dal muovervi, perché sarebbe poi una beffa ancor peggiore del danno e della vergogna sentirci dire, domani o dopodomani, che vi è stata una qualche perquisizione: naturalmente senza esito. Certo, senza esito, signor ministro, me ne rendo conto e se ne rende conto anche lei. Ma resta il fatto grave che finora non una di quelle sedi è stata perquisita. Oh!, se l’attentato avesse avuto una diversa, opposta matrice politica; se, e non lo auguro a nessuno tra i nostri avversari, a nessuno di quelli che ho il diritto anche personale di definire nemici, a nessuno tra coloro che anche personalmente mi ingiuriano e mi calunniano da anni a questa parte, a nessuno auguro che accadano cose simili nella sua famiglia politica; ma se fossero accadute in altra famiglia politica e se per assurdo i responsabili fossero stati individuati in questo settore… oh, allora a decine, forse a centinaia si sarebbero contati gli avvisi di procedimento, gli avvisi di reato, gli arresti, i fermi; interi quartieri di Roma sarebbero stati passati al setaccio. Ma siccome si tratta di indagini che «potrebbero» toccare «anche» i gruppi extraparlamentari di sinistra (non dico, per carità, il Partito comunista), nessuna perquisizione è stata finora compiuta. E queste sarebbero indagini «stringenti»? E cosa dire del fatto che come ella stesso, signor ministro, ha detto, riferendo quello che le è stato detto di riferire si raccolgono indizi (sappiamo tutti di che indizi si tratta perché tutti i giornali ne hanno parlato: la mappa o pianta dell’appartamento Mattei, il famoso elenco di «missini» da colpire) e poi, pur essendosi trovati documenti, indizi assai seri, da un lato si dichiara (e queste sono notizie) che la imputazione è di detenzione di esplosivi ma che gli indizi sono del reato di strage, e dall’altro si annuncia che fino a questo momento nessuno è stato incriminato per strage? Si tratta di indizi non controllati fino a questo momento, perché neppure al controllo degli indizi ó se noi siamo bene informati, e ci sembra di esserlo ó si è giunti (e sono oggi passati 17 giorni dal rogo di Primavalle). Questo rapidissimamente per quanto attiene ai fatti. Ma, per quanto attiene alle valutazioni, onorevole ministro, cosa dire in ordine al Governo? E particolarmente in ordine al Ministero dell’interno per le sue responsabilità? E in ordine alla RAI TV? E in ordine a certa stampa di regime pagata con i denari dei contribuenti italiani, non certamente con i contributi dei lettori, su cui abbiamo detto poco nel testo della nostra interpellanza? Non si azzardi, onorevole ministro, a respingere come false le nostre affermazioni, non si arrischi a definirle insinuazioni, perché lei ha dei tristi precedenti a questo riguardo. Oggi lei ha parlato nobilmente e giustamente il linguaggio di condanna di gesti siffatti e di attentati siffatti al di là e al di sopra delle parti. E noi, duramente colpiti nelle vite di aderenti al nostro movimento, non ci ribelliamo a questo suo linguaggio al di sopra delle parti. Riteniamo che oggi ella abbia fatto il suo dovere di ministro. Ma quando in altre occasioni ella, ancor prima che le indagini «stringenti» tali diventassero, quando indizi seri non erano stati ancora raccolti, è venuto qui non limitandosi ad esprimere il civile sentimento di tutti noi, ma ad accusare, d’accordo con altri settori politici (e purtroppo anche con il suo), una parte, la nostra parte, allora, onorevole ministro ella speriamo non accorgendosene ha seminato odio, ha suscitato rancore e risentimento contro una parte politica, per avventura contro la parte politica che in precedenti occasioni non ha esitato a collaborare duramente con la giustizia indicando presunti colpevoli; per avventura, quella parte politica la nostra che non si è stancata di parlare, e neanche in questa occasione rinunzia a parlare, il linguaggio della pacificazione nazionale; per avventura quella parte politica la nostra che in anni recenti, non in anni lontani, ha visto cadere altre vittime . Vidi cadere accanto a me un operaio di 33 anni, a Genova, Ugo Venturini, e abbiamo visto cadere a Salerno un ragazzo di 19 anni, Carlo Falvella: la Camera, siccome si trattava di carne «missina» o come volgarmente dicesi neofascista o fascista, non se n’ è occupata. Non se n’ è occupato il Governo, non se n’ è occupato il ministro dell’Interno, non se n’ è,occupato lei, onorevole ministro, qui, per accusare duramente qualcuno. E non glielo abbiamo chiesto, perché i nostri morti li onoriamo in santa pace e non ci piace onorarli qui dentro, tra l’ipocrisia degli uni e la sopita ferocia degli altri. Non ci piace. Lo facciamo adempiendo un duro dovere politico che c’impone, e ci autorizza però, al doloroso diritto di ricacciare in gola al Governo e a lei, onorevole ministro, quello che vi permettete di dire da troppo tempo contro la nostra parte. Ella è giunto a difendere financo la RAI-TV. La televisione di Stato (sulla quale siamo tutti impegnati a discutere, perché ho l’impressione che siamo in molti a non tollerare ulteriormente il monopolio e le porcherie della televisione di Stato), la televisione di regime, il giorno 13 aprile, nei Telegiornali delle 20,30 e delle 23, per quattro volte ha ripetuto (lo abbiamo annotato perché ci sono le nostre denunce e le nostre querele in corso) che le bombe di Milano erano state lanciate dai «missini», prima ancora che gli indizi potessero consentire di affermarlo o di smentirlo e nel momento in cui nessuno, a livello di magistratura e a livello di giornalismo responsabile e di ambienti politici responsabili, osava affermare ciò. Non sono state smentite quelle affermazioni, che sono penetrate quella sera e nei giorni successivi come un veleno corrosivo, come altrettante bottiglie molotov, nelle case di tanti italiani, e hanno seminato, attizzato odio: il triste mestiere al quale troppi tra voi si dedicano nei nostri confronti, ma non nei nostri confronti come deputati o senatori del Movimento Sociale Italiano-Destra nazionale, non nei nostri confronti come partito politico, nei nostri confronti come larga rappresentanza di opinione pubblica, una rappresentanza di opinione pubblica che in termini di civiltà osa dirlo e non posso certamente essere smentito, perché ne siete convinti forse più di noi in casi simili rappresenta molto di più dei tre milioni di nostri elettori. Sicché, signor ministro, riservi a migliore occasione una replica polemica nei nostri confronti e cerchi, almeno in questa occasione lo avremmo sperato di mantenersi fino in fondo al di sopra delle parti e di comprendere, se l’esser ministro dell’Interno glielo consente ancora, lo stato d’animo di uomini come noi che da tanti anni sono in battaglia, e sono apertamente in battaglia, e in questo momento vedono contro di sé la congiura e il complotto di tutte le altre parti politiche, ma non pronunziano, neanche in una occasione di tal genere, né la parola «vendetta», né la parola «rappresaglia». Io non le pronunzio, perché se le pronunziassi i primi a condannarmi sarebbero Mario e Anna Mattei, i genitori dei ragazzi bruciati. Penso che questa lezione di civiltà possa servire: gliela dedico, signor ministro.”

Seduta del 21 Aprile 1950

Seduta del 21 aprile 1950 contro l’abbandono di Trieste italiana

La quarantennale battaglia politica di Almirante ha avuto punti di riferimento chiari, precisi, ineliminabili: uno di questi è stato rappresentato dalle terre dalmate, giuliane, istriane, per la cui italianità tante sono state le parole pronunciate in Parlamento, molte sono state le iniziative di mobilitazione a Trieste e in tutto il Paese. Nel discorso che pubblichiamo – esso si riferisce allo svolgimento di una interpellanza – Almirante porta in Parlamento le speranze di Trieste italiana con la volontà del Msi di non abbandonare un territorio che è nazionale e tale deve restare.

ALMlRANTE: “Onorevoli colleghi, devo confessare di aver provato un certo senso di perplessità prima di presentare la mia interpellanza, perché è anche troppo facile, malauguratamente, rendersi conto che, se da un lato questo dibattito era inevitabile, dall’altro esso è anche inutile. Peggio, è doloroso; peggio ancora, potrebbe essere dannoso, se in esso ciascuno di noi non portasse quel senso di responsabilità che, in qualunque partito militiamo, dobbiamo portare quando si affrontano problemi simili, che interessano non le fazioni ma veramente la nazione nel suo profondo significato. È perciò (né, d’altra parte, vi era bisogno da parte mia di preannunciarlo, in quanto è noto il tono di responsabilità e di moderazione con il quale da questi banchi si sono sempre trattati, qui dentro e fuori di qui, i gravi problemi nazionali) è perciò che io mi propongo di parlare… “

(Interruzione del deputato Pajetta Gian Carlo).

“Onorevole Pajetta, la consiglio di ascoltare, non si affanni in anticipo. Mi propongo di parlare chiaro, ma in tono di estrema moderazione. Ed è perciò, soprattutto, che mi sforzerò di contenere la piena dei sentimenti che vibrano in ciascuno di noi di fronte al dramma di Trieste. Ho superato la perplessità iniziale per quattro ordini di motivi: prima di tutto per la necessità di assolvere ad un responsabile dovere nei confronti dei nostri fratelli di Trieste e della Venezia Giulia i quali certamente, purtroppo, sanno anche essi che dalle nostre parole altro conforto non possono attendersi che questo; ma che d’altra parte hanno diritto di pretendere e reclamare da noi tale conforto. Secondariamente, perché sento la necessità di respingere e di smascherare sul piano interno ed internazionale troppo facili speculazioni che si innestano a questa nostra nazionale sventura. In terzo luogo, perché avverto la necessità di far sentire sul piano interno e sul piano internazionale la voce di uomini i quali, non avendo certamente alcuna simpatia né per la Russia sovietica, né per il comunismo, d’altra parte reclamano una politica nazionale veramente indipendente e autonoma, e denunciano con estrema chiarezza i torti di coloro che dicono di voler combattere insieme con noi per la salvezza della civiltà e, in sostanza, non riescono a coprire la propria paura e praticano da troppo tempo la politica della paura, anche a questo riguardo. In quarto ed ultimo luogo, perché sono convinto della necessità, pure espressa nel testo dell’interpellanza, di invitare il Governo ad uscire dalle formule inconcludenti, per tracciare una buona volta, se è possibile, le linee di una politica nazionale responsabile. Come esprimere la nostra solidarietà per i triestini e per i giuliani? Che dire loro, che già non sia stato detto e scritto? Un concetto, soprattutto, voglio qui affermare, e penso che il Parlamento intero dovrebbe affermare, e questo concetto è che il dramma della Venezia Giulia di questi ultimi cinque anni deve essere denunciato all’opinione pubblica mondiale non solo e non tanto come il dramma in se stesso della Venezia Giulia, ma come -direi -il simbolo, più che il sintomo di un colossale fallimento. Leggevo poco tempo fa sull’Osservatore romano: «Stiamo assistendo al fallimento totale di una filosofia, di una politica e di una pseudo civiltà». Pseudo civiltà. Oggi la si chiama «pseudo», ma qualche anno fa, in nome di questa pseudo civiltà, i popoli, e soprattutto il popolo italiano, sono stati illusi ed il segno più tipico, più tragico, più dolorante di questo disinganno, di questo colossale tradimento è proprio Trieste, è proprio la Venezia Giulia. Io penso che dovremmo mobilitare intorno a questo problema -intorno a questo dramma, che si risolve in una denuncia contro i potenti del mondo orientale e del mondo occidentale – l’ opinione pubblica mondiale. Dobbiamo far sentire a tutto il mondo il peso di un’opinione pubblica adeguata per questo colossale tradimento. Ricordiamo quanto nei tempi decorsi mobilitazioni consimili dell’opinione pubblica internazionale abbiano potuto influire sul corso degli eventi, quanto abbiano potuto difendere la causa dei piccoli popoli che sembravano inermi, indifesi ed esposti a tutti i colpi del destino. Ricordate ciò che nel 1800 hanno fatto gli esuli greci in pro del loro paese. Dobbiamo mobilitare gli amici dell’Italia in ogni parte del mondo, i nostri umili amici che sono molto più numerosi di quanto solitamente si creda, per questa crociata in difesa di Trieste e della Venezia Giulia. Dobbiamo inchiodare allo sdegno dell’opinione pubblica mondiale i grandi responsabili di ciò che sta accadendo. Quanto alle speculazioni interne che si innestano su questo problema, abbiamo sentito poco fa parlare l’onorevole Nenni, il quale deve avere fatto sua una frase, veramente poco educata, di Clemenceau; ma Clemenceau era un uomo notoriamente poco educato. L’onorevole Nenni vorrà perdonarmi se ripeto quella frase, attribuendola a lui. Clemenceau dava un consiglio ai suoi amici dicendo: «Se ti puzzano i piedi, mettiti accanto ad uno a cui puzzano ancora di più». È per questo, probabilmente, che l’onorevole Nenni si sente al coperto in questo settore, e pensa che si possano affrontare certi temi, perché accanto a lui siedono i maggiori responsabili… “

(Vivaci proteste all’estrema sinistra).”

Stavo osservando che l’onorevole Nenni può parlare come ha parlato perché, indubbiamente, le sue responsabilità sono meno clamorose delle responsabilità di taluni suoi amici. L’onorevole Nenni era ministro degli Esteri nel novembre 1946, al tempo di quella famosa missione Togliatti a Belgrado della quale egli ha parlato. Quando si parla della missione di Togliatti a Belgrado, i comunisti protestano dicendo che si è troppo speculato, che si è deformata la realtà, ed io non ho nessuna intenzione di speculare, né di deformare la realtà, né di approfittare dei troppo facili motivi polemici che mi verrebbero incontro. Non ho intenzione di insistere sulle espressioni che, in quei giorni, gli italiani potevano leggere sull’ Unità a proposito della missione di Togliatti e dei nobili sentimenti del poi scomunicato maresciallo Tito. Vi è un comunicato della segreteria del Partito Comunista, in data 8 novembre 1946, in cui la segreteria stessa «esprime la propria riconoscenza, a nome di tutti i veri democratici italiani, al maresciallo Tito, per la generosa comprensione da lui dimostrata per le questioni che più stanno a cuore al popolo italiano». Ma sorvoliamo. Sono espedienti polemici fin troppo facili. Vediamo, piuttosto, i fatti. Cerchiamo di precisarli, perché da parte comunista molto spesso si specula sulla scarsa memoria degli italiani, e soprattutto sulla scarsa capacità degli italiani a raccogliere e conservare documenti. Il documento fondamentale che riguarda quella missione è il comunicato apparso sull’ Unità del 7 novembre 1946. È molto breve e posso darne lettura. Questa è la dichiarazione di Togliatti: «Il maresciallo Tito mi ha dichiarato di essere disposto a consentire che Trieste appartenga all’Italia, cioè sia sotto la sovranità della Repubblica italiana, qualora l’Italia consenta a lasciare alla Jugoslavia Gorizia, città che, anche secondo i dati del nostro Ministero degli esteri, è in prevalenza slava (da notare che questa notizia fu poi dichiarata completamente falsa). La sola condizione che il maresciallo Tito pone è che Trieste riceva, in seno alla Repubblica italiana, uno statuto autonomo effettivamente democratico (pensate da quale pulpito veniva questa raccomandazione!) che permetta ai triestini di governare la loro città e il loro territorio secondo principi di democrazia». L’onorevole Togliatti commentava: «)Io penso che la proposta del ma resciallo Tito possa felicemente servire di base per la soluzione definitiva di tutte le questioni controverse fra i due paesi… lo ritengo assurda e antinazionale la campagna, che qualcuno conduce, per fare fuggire gli italiani dai territori che rimarranno alla Jugoslavia… È chiaro che tutte le campagne circa le pretese persecuzioni degli italiani in Jugoslavia sono da porre al novero delle calunnie e delle menzogne». I commenti sono facili a farsi. Ma fermiamoci ai fatti. In quale momento della vita politica del nostro paese e della vita politica internazionale avveniva tutto ciò? Ciò avveniva alla vigilia delle elezioni amministrative italiane. Ecco perché io vorrei consigliare -e non lo dico certo per fare l’avvocato d’ufficio, perché ho molte cose da dire, e gravi cose da denunziare nei riguardi del Governo -ma per equità vorrei consigliare, sulla stregua di questi documenti, le sinistre a non insistere sul tema dei buffetti elettorali; perché un buffetto elettorale è stato, senza alcun dubbio, quello del 20 marzo 1948; ma, d’altra parte, quello del novembre 1946 non so come definirlo, non so come Tito lo chiamasse. Era indubbiamente un buffetto o uno schiaffetto del maresciallo Tito sulla guancia dell’onorevole Togliatti e sulla missione dell’onorevole Togliatti a Belgrado, alla vigilia delle elezioni amministrative italiane; speculazione elettorale così la «missione» che il «buffetto». Quanto poi al momento internazionale, la faccenda è ancora più delicata e più grave; perché, mentre L’Unità recava ciò che ho letto, a New York erano riuniti i quattro ministri degli Esteri, per redigere il testo definitivo del trattato di pace con l’Italia (che alla conferenza dei 21 a Parigi non era stato redatto), e per occuparsi, soprattutto, dei problemi controversi e, tra questi, principalmente del problema di Trieste e della Venezia Giulia. La delegazione italiana presso i quattro aveva già espresso ufficialmente in una nota -pubblicata dall’ Unità in precedenza, il 5 novembre -il proprio pensiero (l’onorevole Nenni lo sa bene, perché in quel momento egli era ministro degli Esteri); ed il pensiero espresso ufficialmente dalla delegazione italiana a New York era in netto contrasto col pensiero espresso dall’onorevole Togliatti a Belgrado. La delegazione italiana a New York non solo aveva rivendicato le zone comprese proprio nel cosiddetto territorio libero, ma aveva anche chiesto che si estendesse il territorio libero fino alla zona di Parenzo e di Pola. Ed in una nota ufficiale, che l’onorevole Nenni dovrebbe ben conoscere, la delegazione italiana aveva comunicato ai quattro che le rivendicazioni esposte nella nota erano «destinate a mantenere, in ogni caso, il loro pieno valore, in quanto imposte dalle permanenti e fondamentali esigenze di vita e di sviluppo della nazione italiana». Che cosa accadde, dunque, a Belgrado? Accadde che il capo di un partito italiano, che faceva parte del Governo, si recò all’estero e non portò all’estero il pensiero responsabile dei circoli italiani (perché sembra che non si sia curato neppure di conoscerlo), ma portò in Italia la volontà del maresciallo Tito, volontà che non era neanche attenuata nei confronti della precedente richiesta fatta dalla Jugoslavia a Parigi, perché a Parigi le stesse cose aveva chiesto la Jugoslavia e le erano state negate; volontà che era altresì rispecchiata perfettamente in una proposta, che subito dopo, il 3 dicembre, la Jugoslavia faceva alle quattro Potenze -pubblicata anche questa sull’ Unità, il 4 dicembre -e con la quale chiedeva Gorizia, annunziando di essere pronta a cedere, con uno statuto speciale, la città di Trieste. Al di fuori, dunque, di ogni polemica, la famosa missione Togliatti a Belgrado altro non fu, ripeto, che il tentativo, non riuscito, di rendere un servizio, da parte del Partito Comunista Italiano, al Partito Comunista, non ancora scomunicato o eretico, jugoslavo. Che cosa fece in quel frangente il ministro degli Esteri? Stando all’ Unità, che in quei giorni (l’onorevole Nenni lo ricorderà) fu piuttosto reticente ed imbarazzata al riguardo, il ministro degli Esteri non ebbe troppo da rallegrarsi col compagno onorevole Togliatti per il passo da lui compiuto a Belgrado. Ebbe tanto poco da rallegrarsi, che diramò subito un comunicato in cui era detto che «il Governo non poteva evidentemente prendere come punto di partenza di trattative dirette con la Jugoslavia la rinunzia a una città italiana che i «quattro» hanno già deciso debba restare all’Italia». Il ministro degli Esteri fu tanto poco soddisfatto che si trovò in polemica al Consiglio dei ministri (come avvertiva l’Unità del 15 novembre 1946) con il compagno Scoccimarro, il quale rimproverava a Nenni la diramazione di quel comunicato; fu tanto poco soddisfatto, che nello stesso giorno fu in polemica, nella Commissione dei trattati, con l’onorevole Parri il quale, sconsolato dalle dichiarazioni del ministro Nenni, disse che quelle dichiarazioni dissipavano «le grandi speranze fatte sorgere dal passo del compagno Togliatti». In seguito, subito dopo, l’onorevole Nenni tentò di prendere contatto -sulla base delle trattative instaurate dall’onorevole Togliatti -con il Governo jugoslavo e ne riferì al Consiglio dei ministri; ma furono notizie piuttosto desolanti, perché dichiarò di aver tentato di mettersi in contatto con Belgrado come privato (è ben strano che un ministro degli Esteri tenti di prendere contatto con un altro governo in qualità di privato cittadino!), ma di non aver avuto risposta. È passata molta acqua sotto i ponti. Tito ha ricevuto la scomunica, l’atteggiamento del Partito comunista e del Partito socialista è mutato nei confronti del governo jugoslavo.”

NENNI PIETRO: “Il nostro atteggiamento non è cambiato.”

ALMIRANTE: “Prendo atto ben volentieri di questa sua dichiarazione che è una specie di strana rottura del patto di unità d’azione con i comunisti. Sono lieto di sentire che, per la prima volta, l’onorevole Nenni ammette e tiene a dichiarare che il suo atteggiamento si distingue da quello dei comunisti.”

NENNI PIETRO: “L’ho illustrato pochi minuti fa, citando i discorsi che ho tenuto nel 1948. Oggi dico ciò che dicevo da ministro.”

ALMIRANTE: “Soltanto che da ministro non le riusciva di fare ciò che diceva, perché l’onorevole Togliatti faceva il ministro per conto suo.”

PIETRO NENNI: “Belgrado non accettò.”

ALMIRANTE: “È stato un matrimonio mal assortito. Ripeto: la situazione -non lei, onorevole Nenni che, non so se per sua fortuna o per sua disgrazia, rimase sempre lo stesso… “

MIEVILLE: “. .. come al tempo della fondazione del fascio di Bologna!”

ALMIRANTE: “…la situazione è obiettivamente mutata, e l’atteggiamento del Partito comunista e del Partito socialista da lei espresso -e spero che stavolta sia d’accordo con i compagni comunisti -verte su una situazione diversa. Però l’opinione pubblica italiana ha notato che proprio oggi che ha luogo questo dibattito parlamentare (è un fatto sintomatico, una strana combinazione: sono coincidenze diplomatiche veramente sorprendenti e, d’altra parte, non si può che elogiare un governo che ha il dono della tempestività)..”

PAJETTA GIAN CARLO: “Sarebbe molto più strano se si fosse parlato delle guerre puniche.”

ALMIRANTE: “Certamente. Dicevo che l’opinione pubblica italiana ha notato che proprio oggi è stata pubblicata una dichiarazione ufficiale del Governo sovietico nella quale il Governo sovietico, in sostanza, non fa che riconfermare l’atteggiamento che in ordine al problema del Territorio Libero ha sempre tenuto. Come l’onorevole Nenni, il Governo sovietico -non so, anche in questo caso, se per fortuna o per disgrazia -è rimasto sempre sulle stesse posizioni. Immediatamente, anzi contemporaneamente, anche stavolta, con un senso di tempestività di cui faccio elogio all’onorevole Pajetta, L’Unità ha pubblicato un comunicato della segreteria del Partito comunista italiano, nel quale dichiara di approvare in tutto e per tutto le dichiarazioni sovietiche e di tenerle come le uniche… “

PAJETTA GIAN CARLO: “Le legga!”

ALMIRANTE: “Le ho lette.”

PAJETTA GIAN CARLO: “Allora non ha capito nulla!”

ALMIRANTE: “Ho ben capito! La segreteria del Partito comunista…”

(Interruzione del deputato Pajetta Gian Carlo).

“Spero di non assistere qui, per bocca dell’onorevole Pajetta, ad un pericoloso screzio tra l’onorevole Pajetta e il Governo sovietico! Si dice che i rivoluzionari manchino del senso dell’umorismo. Ella è un grande rivoluzionario, indubbiamente! Dicevo che il comunicato, tradotto dal russo in italiano dalla segreteria del Partito Comunista Italiano (forse per questo il periodare è alquanto contorto), afferma che il Partito comunista aderisce alla tesi espressa nella nota sovietica, secondo la quale l’unica soluzione possibile per il Territorio Libero è quella prospettata prima che venisse diramata la dichiarazione anglo-franco-americana del 20 marzo. L’onorevole Nenni dichiarava poco fa che bisogna rifuggire dalle dichiarazioni, dalle prese di posizione che non hanno alcuna possibilità materiale di tradursi in atto. Ho l’impressione che anche questa dichiarazione sovietica sia nel novero di quelle che non possono tradursi in realtà. E se ella, onorevole Nenni, mi dicesse che non è certo colpa, in questo caso specifico, del Governo sovietico, non potrei che dargliene atto. La verità è questa: è colpa di tutta una situazione internazionale che è venuta a determinarsi. Secondo il nostro punto di vista, l’Italia avrebbe potuto uscire da questa situazione facendo una certa politica; secondo il nostro punto di vista, l’Italia avrebbe potuto non entrare in questa situazione facendo una certa politica. E cercherò, modestamente, di esporre in seguito il mio punto di vista in ordine a questo problema. Comunque, la situazione è quella che è, e anche la dichiarazione sovietica non è altro che una petizione di principio, non fa altro che riprodurre una determinata impostazione. E noi dobbiamo prendere atto che da un lato, a quel che sembra dalle dichiarazioni ufficiose, non ancora ufficiali (perché la dichiarazione poco fa citata del segretario di Stato Acheson non mi pare troppo chiara, per lo meno non mi pare risolutiva), da un lato i governi anglo-franco-americano sembrano recedere dalla loro posizione del 20 marzo 1948; dall’altro il Governo sovietico non recede affatto da quella che è stata la sua impostazione precedente alla rottura dei suoi rapporti con la Jugoslavia, e quindi impostazione che non può ritenersi favorevole all’Italia. Quindi, dall’una come dall’altra parte, si nota la cattiva volontà, l’impossibilità, in sostanza, di uscire e l’incapacità di uscire dal punto morto nel quale la diplomazia dell’una e dell’altra parte si è cacciata. Che la mancata diplomazia italiana, per conto suo, abbia accelerato questa situazione mi sembra un dato di fatto, ma che la dichiarazione sovietica, o che un’ impostazione sulla base della dichiarazione sovietica quale l’onorevole Nenni ha voluto dare, costituisca un rimedio positivo, una via d’uscita, mi sembra che non si possa obiettivamente sostenere. Vi è un’altra speculazione che è connessa a questa, ed è la speculazione opposta: la speculazione che potrei definire occidentale. Quegli stessi stranieri i quali vennero a suo tempo a patto col comunismo, anzi gli spianarono la strada, gli facilitarono l’avanzata verso l’occidente d’Europa, oggi vanno speculando sulla speculazione comunista e dicono: vedete, l’irredentismo istriano è alimentato da ambienti che traggono ispirazione dalla Russia e, in fin dei conti, fa il giuoco della Russia. A questo punto, molto fermamente, molto decisamente, se pur molto serenamente, noi dobbiamo ribattere: no, signori; il gioco della Russia lo state facendo voi. Molto bene scriveva qualche giorno fa il Quotidiano: «Gli anglosassoni lavorano contro il Cominform in Jugoslavia, ma è un fatto che lavorano per il Cominform in Italia». E vorrei dire, con la stessa serenità e con la stessa fermezza, che questo è un gioco pericoloso perché non si può impunemente scherzare con i sentimenti, con la dignità, con l’esistenza stessa di un grande popolo quale, malgrado tutto, è il popolo italiano. A questo punto i soliti retorici dell’antiretorica diranno che si tratta di linguaggio nazionalistico, o che noi vogliamo minacciare chissà che cosa, una specie di quos ego… forse la guerra, a questi stranieri che non ci comprendono? Certamente no Siamo con i piedi sulla terra, non amiamo e non pratichiamo mai la retorica. Guardiamo la situazione in faccia, quale che sia. È vero che noi abbiamo bisogno degli stranieri, è stato ripetuto parecchie volte. Ma è anche incontestabilmente vero che, di giorno in giorno, gli stranieri hanno più bisogno di noi e noi abbiamo un poco meno bisogno di loro. Ne abbiamo un poco meno bisogno, perché gli italiani si stanno ritrovando, perchè l’Italia sta rinascendo, prima nel morale che nel fisico, sta rinascendo la famiglia nazionale. La coscienza dei nostri grandi problemi si sta radicando un’altra volta nel cuore e nelle fibre del popolo italiano. E gli occidentali possono fare a meno di noi, possono trascurarci? Essi stanno giocando una partita europea che è un po’ la partita americana. Sono sfumati i tempi, non so se fossero belli, o meno, dell’isolazionismo. I due partiti americani, una volta, su questo problema erano divisi: oggi sono concordi nel mettere in soffitta quella formula e nel comprendere che nell’occidente europeo si combatte una battaglia che l’America per la sua salvezza non può disertare. Di queste battaglie l’America ne ha già recentemente combattuta e perduta una: quella per l’estremo oriente. Io vorrei chiedere ai diplomatici e ai giornalisti americani se, dopo un Ciang Kai Scek, ne vogliamo costruire altri. Non hanno compreso l’insegnamento evidentissimo, che dalla tragedia cinese dovrebbe essere giunto loro? A leggere un recente ed interessante rapporto del segretario di Stato Acheson, si dovrebbe dire che essi, o almeno alcuni di essi , lo abbiano compreso. Perché Acheson recentemente dichiarava che egli si rendeva conto che il nazionalismo asiatico aveva dei fondamenti storici, due soprattutto: la secolare ribellione contro gli imperialisti stranieri e la secolare ribellione contro l’imperialismo della fame e della povertà. Questo vale per l’Asia; ma non vale, forse, anche per l’Europa? E non vale, forse, soprattutto, in Europa, per l’Italia? Non è questo il nostro secolare problema, non è la secolare lotta del popolo italiano, lotta contro gli imperialismi stranieri, lotta contro la fame, la miseria, la degradazione sociale? Le simpatie del signor Acheson si sono risvegliate tardive per gli asiatici. Non destano in lui neppure qualche piccola preoccupazione circa quanto potrebbe accadere nell’Europa occidentale, se si continuasse, o se si rinnovasse qui la politica di Ciang Kai Scek? Hanno trovato nel maresciallo Tito una specie di Ciang Kai Scek in sedicesimo. Si fidano di lui, sono così puerilmente superficiali da non comprendere che, al momento opportuno, gli slavi di Belgrado marcerebbero insieme con gli slavi di Mosca verso l’occidente? Se anche non lo volessero comprendere, Tito stesso si incarica di dirlo loro. In un recente discorso, del mese di febbraio di questo anno, Tito ha dichiarato: «Noi non abbiamo voluto rinunziare ai principi del marxismo-leninismo, alla vera dottrina di questa scienza, anche quando l’Unione Sovietica faceva pressione su di noi. Noi non siamo caduti allora, e tanto meno cederemo all’occidente. Noi non abbiamo ritenuto di andare da questi ed ancor meno da quelli». Lasciamo andare, in questa dichiarazione, gli accenni fumosi e alquanto nebulosi alla dottrina, alla scienza, al marxismo; ma vi è un dato di fatto ineluttabile perché è storico e, vorrei quasi dire, fisico: questa gente, se marcerà, non marcerà mai da occidente verso oriente, ma marcerà sempre da oriente verso occidente. È veramente strano -cioè, non è strano, perché è tipica degli americani questa fondamentale ignoranza della storia dei paesi con i quali trattano -che si possano coltivare certe illusioni, e proprio a nostro danno. È soprattutto strano e dirò di più (forse è l’unica parola grossa che mi lascerò sfuggire) è ignobile che tali illusioni si coltivino nei riguardi di Trieste, della città che da sola, per secoli, ha sbarrato il passo all’oriente e ci ha salvati in tante occasioni, in tutta la sua vita, perché tutta la sua vita è una rifiorente avanguardia di latinità e di civiltà, contro la marea dell’oriente? Purtroppo, gli americani, non tanto i diplomatici quanto i giornalisti, hanno trovato piuttosto facile una risposta quando dicono: già, ma in Italia ci si dice, per bocca del senatore Scoccimarro, che nel giorno in cui l’Italia fosse coinvolta in una guerra, gli italiani prenderebbero posto a fianco delle truppe sovietiche. L’onorevole Togliatti, a Varsavia, sembra abbia fatto una dichiarazione dello stesso genere. È facile alla stampa occidentale speculare su questi argomenti, ma è altrettanto facile rispondere che spetta alla politica degli Stati Uniti, agli accorgimenti e alla previdenza della politica degli Stati Uniti far sì che dichiarazioni simili siano sprovviste di ogni senso; far sì, soprattutto, che non vi siano italiani indotti, dalla disperazione per i continui «buffetti elettorali» sulle guance o per i calci in altra sede, a gettarsi tra le braccia del primo straniero che capitasse sul nostro suolo. Vi sono, poi, gli zelatori sistematici degli Stati Uniti i quali dicono a uomini che parlano franchi e schietti come noi: siete dei bravi giovani, le vostre speranze, i vostri impulsi, meritano di essere incoraggiati, ma tacete perché potreste compromettere tutto, perché potreste rovinare tutto. Questo atteggiamento di codesti zelatori mi ricorda (e faccio subito ammenda se commetto un plagio, perché la favoletta che adesso vi dirò l’ho ascoltata da un collega di un altro partito al Senato) la favola del cacciatore, dell’amico e del leopardo. Mi ricorda, cioè, quel tale amico di un cacciatore che dava al cacciatore stesso tanti buoni consigli sui pericoli, sulla inopportunità della caccia del leopardo, sulle cautele che si devono prendere quando si va alla caccia al leopardo. Alla fine, disperato, il povero cacciatore disse all’amico: ma sei amico mio, o del leopardo? E a questi zelatori nostrani che ci danno tanti consigli di prudenza noi dovremmo chiedere: ma siete veramente amici dell’Italia e italiani, o soltanto amici degli stranieri e loro complici? S’illudono forse gli americani che i riflessi di questa loro politica si possono fermare all’Italia? Quand’anche essi ci considerino, come mostrano di considerarci, una specie di res nullius, credono di potere agire in tal modo nei nostri confronti senza che tutto il loro sistema ne risulti incrinato e scosso? Ma quale fiducia si potrà avere più, e non solo da parte nostra che non l’abbiamo mai avuta, ma anche da parte di coloro che hanno accettato quella politica, nei solenni impegni del Patto atlantico? Abbiamo sentito dire in questi giorni: «Il Patto passa per l’Italia»; un ministro ha una volta ancora proclamato solennemente che l’Italia è tutelata dal Patto. Ma sorge oggi spontaneo chiedersi se l’Italia sia difesa dal Patto così come è stata difesa dalle dichiarazioni tripartite del 20 marzo. Funzionerà il Patto allo stesso modo di quella dichiarazione? Avrà il Patto per le parti contraenti, lo stesso valore che ha avuto quella dichiarazione? O saranno possibili giuochi di equilibrio anche in quella sede? E, badate, queste considerazioni che facciamo, che tutto il popolo italiano sta facendo, possono rimbalzare, e rimbalzeranno fatalmente di popolo in popolo e potrebbe accadere che, per aver voluto guadagnare Tito, la politica americana perdesse non soltanto l’Italia ma l’Europa. Diceva poco fa l’onorevole Nenni che oggi Tito vale più di De Gasperi per l’America. Io dico che, obiettivamente, per la politica americana Trieste vale molto più di Tito, perché Trieste, in questo momento, è la pietra di paragone di tutta la politica, di tutta una capacità di condurre una determinata politica e, se la politica anglo- franco-americana, soprattutto se la politica americana fallisse a Trieste, tutto il mondo vedrebbe in ciò una bancarotta fraudolenta e perderebbe fiducia in questa politica. Su ciò dovrebbero riflettere gli americani prima di mercanteggiare con tanta faciloneria e con tanta puerile superficialità nei confronti dei nostri interessi. Io ritengo necessario dire tutto ciò agli americani, ritengo necessario parlare loro un linguaggio d’ assoluta fermezza, onde rilevare lo stridente contrasto che vi è fra le comunicazioni del passato e la situazione odierna. A questo proposito, mi permetto ricordare che nella famosa dichiarazione tripartita vi è una valutazione che costituiva un giudizio definitivo, in un certo senso, nei confronti del regime di Tito e di ciò che Tito stava facendo nel Territorio Libero. In quella dichiarazione era detto che essi (cioè gli ango-franco-americani) hanno ricevuto prove molteplici di una completa trasformazione del carattere della zona triestina e della sua virtuale incorporazione nella Jugoslavia, mediante procedimenti che non rispettano la volontà espressa dalle potenze di dare al Territorio uno statuto indipendente e democratico. Si aggiungeva nella dichiarazione che, «avendo il Consiglio di sicurezza assunto la responsabilità del mantenimento dell’ indipendenza e dell’ integrità del territorio di Trieste, i governi americano, britannico e francese sottoporranno all’approvazione del Consiglio stesso le sistemazioni da raggiungere di comune accordo». Non vi è, dunque, in queste parole l’ espressione generica di una speranza, ma l’espressione responsabile di un giudizio politico intorno al regime di Tito ed intorno al trattamento che esso stava facendo in quel tempo al territorio di Trieste; vi è un’assunzione precisa di responsabilità per il mantenimento dell’indipendenza e della integrità di quel territorio. Ho voluto rilevare ciò, anche perché si parla da parte di alcuni di un ricorso al plebiscito popolare. Ma ci si rende conto, da parte di costoro, che in questo periodo il volto, l’aspetto fisico del territorio libero per quanto riguarda la zona B è stato completamente snaturato? Ci si rende costo che diecine di migliaia d’ italiani sono dovuti fuggire? Ci si rende conto che molti altri -dei quali purtroppo non possiamo fare la tragica contabilità -sono morti in questi anni, o «infoibati», o finiti di stenti? Ci si rende conto che molte migliaia sono stati trasferiti nei cosiddetti «campi di lavoro» jugoslavi? Ci si rende conto di ciò che hanno fatto e stanno facendo, negli uffici anagrafici di tutti quei comuni italiani, gli jugoslavi? Con quale leggerezza si parla, dunque, di plebiscito in questo momento? Si vuol dare un’altra offerta a Tito,e dargli la possibilità di rifarsi una verginità democratica attraverso una consultazione che di democratico non avrebbe nulla? Onorevoli colleghi, le considerazioni precedenti sembrano scagionare in gran parte il Governo dalle sue responsabilità perché, arrivati a questo punto, si potrebbe dire: da un lato vi sono state le responsabilità -da me denunciate -di parte social- comunista, dall’altra vi sono le responsabilità -da me parimenti denunciate -di parte anglo-franco-americani; il Governo si è trovato un po’ fra l’incudine e il martello. Ma non è questa la mia tesi. La verità è che a me sembra che il Governo abbia voluto essere o non abbia saputo essere altro che l’incudine, sottoposta a tutti i martelli, e che fra l’incudine e il martello si siano trovati i vitali interessi del nostro: paese, che in questo modo sono stati frantumati! D’altra parte, non sono io il primo a denunciare questa politica di passività governativa: essa è stata denunciata da giornali lontani da noi e molto vicini -piuttosto -al Governo. Mi limito a leggervi una frase recente della Libertà: «Con un tenace spirito di fatalismo o d’ abdicazione, l’Italia ufficiale pone ogni sua cura nel pesare il meno possibile sulle decisioni altrui, anche se esse la riguardano direttamente e immediatamente. La politique de présence non è quella di palazzo Chigi! ». Da questa politica di passività, a quanto ha annunciato il recente Consiglio dei ministri, si dovrebbe uscire attraverso una politica di fermezza. Ora io attendo con una certa curiosità che l’onorevole ministro voglia spiegare in che cosa consisterà questa politica di fermezza, che voglia cioè dire quali saranno le impostazioni generali e le iniziative particolari in cui questa politica di fermezza si potrà concretare. Mi auguro, ad ogni modo, per il paese, che il ministro non ci voglia semplicemente dire che questa politica di fermezza è… una politica di fermezza! Così mi sembrano poco concludenti le frasi lette in una rivista ufficiosa molto vicina al Ministero degli esteri, in cui si dice «Non retrocederemo di un pollice, non cederemo di un pollice». Nessuno più di me approva frasi di questo genere, ma il problema mi sembra non tanto quello di cedere, quanto quello di uscire da questa situazione, di uscire da questo punto morto, di trovare la possibilità di svolgere una politica estera che abbia una sua linea di condotta coerente, e che porti a qualche risultato, al massimo risultato possibile, nell’attuale situazione del nostro paese! E neppure un’altra frase che ho letto sulla stessa rivista mi tranquillizza e mi conforta, e cioè: «Siamo usciti dall’isolamento». Ma, se si esce dall’isolamento per entrare -come mi sembra -in una specie d’ accerchiamento, mi pare che l’isolamento si sia aggravato. Attendo, dunque, ripeto, le impostazioni generali e le iniziative particolari di cui il Governo vorrà rendere edotta la Camera. Per mio conto, sento il dovere di non limitarmi alle critiche, ma di suggerire quelle impostazioni generali ed iniziative particolari che mi sembrano confacenti al problema. E, per chiarire il nostro punto di vista, voglio muovere da un esame obiettivo d’ un recente discorso del ministro degli Esteri. In quel discorso trovo affermazioni come queste: «Diciamocelo bene, la coscienza morale del mondo sta inserendosi anche nella vita internazionale, che fino a ieri fu quasi sempre egoismo e violenza». In quest’ affermazione, e in altra affermazione breve che vi citerò, io trovo il riflesso di quella specie di panglossismo che mi sembra caratterizzi molto bene, o molto male, l’azione del Governo in politica estera. Piuttosto che panglossismo, potrei dire una specie di narcisismo delle formule. Il Governo trova nel suo cammino delle formule nelle quali nessuno, in verità, crede. Le ripete, ci si specchia, ci si riflette, ci si compiace, e finisce per credere che esse rispondano ad una realtà. Ma, onorevole ministro, le sembra veramente che il mondo attuale possa determinare nel più ottimista fra noi affermazioni di questo genere, che nella vita internazionale si stia determinando una coscienza morale, mentre fino a ieri avevamo visto egoismo e violenza? Malauguratamente, se mi guardo attorno, nel vasto mondo non trovo altro che egoismo e violenza, e la pratica politica -mi pare che questo dibattito stesso ne sia la dolorosa prova -altro non è che egoismo e violenza scatenati. Ed ecco un’altra sua panglossiana frase: «Utopia, sapete ciò che sta diventando? Lo sta diventando il mito della sovranità assoluta dello Stato nazionale». Ma gli Stati Uniti, onorevole ministro, la Russia, la Francia, l’Inghilterra, la Jugoslavia, nella loro politica attuale le sembrano dei miti nel senso che ella sta dicendo, cioè realtà incorporee? Fosse vero! Ma, purtroppo, le sentiamo gravare sopra il nostro popolo. Andiamolo a raccontare ai triestini che è un mito la sovranità assoluta dello Stato jugoslavo di Tito, e credo che la loro risposta non sarà molto edificante. Ora, non si tratta qui, onorevole ministro, di fare la critica ad alcune frasi staccate, ma si tratta da parte mia di rintracciare la causa determinante, intima e profonda, direi , di tutta una linea politica che noi non possiamo assolutamente condividere. E siccome sono su questa strada, siccome cerco di documentarmi, ho trovato un documento più antico, in ordine a questa stessa linea politica e alle vostre responsabilità nei confronti della situazione di Trieste. L’onorevole De Gasperi scrisse il 22 agosto 1945 al ministro degli Esteri americano Byrnes una lettera a proposito delle trattative allora già in corso per il trattato di pace, nella quale si diceva testualmente: «Frontiera orientale con la Jugoslavia: noi ammettiamo francamente che, da un punto di vista etnico ed economico, la Jugoslavia ha diritto ad alcune rettifiche dell’ attuale frontiera… Noi siamo convinti che la linea suggerita dal presidente Wilson può essere presa come base di tale sistemazione. Questa linea significherebbe per l’Italia la dolorosa perdita di due città italiane, Fiume e Zara, e di circa 80.000 abitanti». La lettera concludeva, dopo aver parlato di altri problemi: «Ho preferito ammettere subito e francamente i sacrifici che noi ci sentiamo in dovere di fare… Questa nuova procedura deve essere considerata un’altra prova della fiducia assoluta che l’Italia nutre nel senso di giustizia e di comprensione degli Stati Uniti». Ma, onorevole De Gasperi, ella nutriva questa fiducia ed io non posso, né voglio in alcun modo dubitare della buona fede con cui ella si rivolgeva al ministro degli Esteri americano. Ma ella non aveva, mi pare, modestamente, il diritto di dire che l’Italia nutriva la stessa assoluta fiducia «nel senso di giustizia e di comprensione degli Stati Uniti». Ella non aveva il diritto di instaurare questa <nuova procedura» che consisteva addirittura nel dichiarare che all’Italia da voi rappresentata -e alla quale, pertanto, non si poteva fare nessuna delle colpe che potevate ritenere di attribuire all’Italia precedente -voi aveste il dovere di far fare dei sacrifici i quali poi, a chiare lettere, colpivano l’esistenza di almeno 80.000 italiani. Da quest’ impostazione politica -che discende da una concezione completa- mente astratta dei rapporti internazionali secondo cui, da parte dei nostri amici o alleati, vi sarebbe per principio tutta la buona fede di questo mondo -da questa impostazione politica sono nati tutti gli errori che via via ci hanno trascinato fin qui. Si è creduto di aver già creato quel mondo che si voleva creare. Si sono prese sul serio le famose quattro libertà; ma gli uomini che ne parlavano, ne parlavano soltanto per arruolare mercenari in tutte le parti del mondo. Ma ora basta. Ora, dopo questa dolorosa esperienza, ci siamo guardati in faccia tutti. Sappiamo che nel mondo non esistono vincitori né vinti. Il truculento e orgoglioso Winston Churchill diceva agli italiani: voi pagherete il biglietto di ritorno. Lo sta pagando lui, lo ha pagato in lire sterline qualche mese fa, quando ha mandato un avvocato per difendere il maresciallo tedesco Von Manstein. Tutto ciò è divenuto chiaro. Volete rifuggire dai grandi esempi? Prendiamone uno più vicino a noi. Vediamo quanto sta accadendo nella Germania di Bonn. Il presidente del Consiglio, Adenauer, è un democristiano. La stampa, cosiddetta democratica, italiana si è scandalizzata perché egli ha osato intonare il Deutschand uber alles. Egli si è alzato in piedi quando la banda….”

SFORZA: ” Ministro degli affari esteri. Non lo si è cantato! È stata cantata semplicemente la terza strofa, che è un inno alla libertà, strofa che era stata proibita da Hitler. “

ALMIRANTE: ! Hanno cantato la parte epurata; poi, disepureranno anche il resto. Ma posso ricordare anche un altro episodio. Al Parlamento tedesco si levò a parlare un deputato comunista, Reimann, che sostenne fossero giuste le frontiere attribuite alla Germania sul lato orientale, nei confronti della Polonia. Da quell’ affermazione derivò un indescrivibile tumulto. I deputati di tutti i partiti si lanciarono contro il Reimann per aver pronunziato un’affermazione antinazionale. (In Germania queste cose accadono ancora, e non credo sia male per il popolo tedesco che accadano). Placato il tumulto, il presidente Adenauer dichiarò, a nome del governo, che deplorava vivamente quella frase pronunciata nel Parlamento tedesco, e prendeva l’impegno di fare ‘in modo che il Parlamento tedesco non dovesse essere, in avvenire, disonorato come in quel momento. È un democristiano che parla in questo modo. Vediamo come parla il suo antagonista, Schumacher, vecchio antinazista, che è stato nei campi di concentramento di Hitler. In un comizio, rimasto famoso, in occasione delle recenti elezioni germaniche, egli ha dichiarato: «Io sono nazionalista, perché soltanto così so e sento di difendere il mio paese». Dobbiamo noi crocifiggere uomini che fanno affermazioni di tal genere? Fanno forse male alloro paese? Hanno forse nociuto al reinserimento della Germania di Bonn nell’Europa e nel mondo? Lo hanno ritardato? Con quali intendimenti gli anglosassoni stanno guardando alla Germania? Mi pare obiettivamente constatabile che uomini di tal genere, che osano parlare in tal modo, sia pur cantando strofe epurate, ma affermando fermamente i diritti del popolo tedesco, giovino nettamente e fortemente al loro paese. Questo è un argomento di pubblica discussione. Lo si ammette sui nostri giornali. Grazie a questi uomini, la Germania si sta reinserendo in Europa e nel mondo forse più rapidamente dell’Italia.”

BELLA VISTA: “Si inserirà venendo a Strasburgo.”

ALMIRANTE: “E’ da dubitare che a quel paese si oserebbe infliggere un trat tamento come quello che riguarda noi per Trieste. In sostanza -ed è questa la parte positiva che esce dalla critica precedente – in sostanza, noi rileviamo un terribile complesso d’ inferiorità da parte di chi ci governa; è il complesso d’ inferiorità che chiamerei della sconfitta, della disfatta. Si rimane immersi nel clima della disfatta e non si ha il coraggio di uscirne. Ma il popolo italiano n’ è già uscito per tre quarti. Al popolo italiano si può e si deve parlare altro linguaggio di quello che si parlava nel 1945. È passata dell’acqua sotto i ponti, si è ricostruito nelle coscienze e si è ricostruito nel morale. Parlare di nazione non è più un delitto, e non è un delitto, neppure il nazionalismo così come oggi può essere concepito. Si dice (imperialismo»; ma chi può essere tanto idiota in Italia da concepire un nazionalismo a carattere imperialistico, o chi potrebbe determinare intorno a sé un moto di coscienze su basi così chiaramente illusorie e pazzesche? In ben altro senso noi parliamo di nazione e di nazionalismo. Noi domandiamo: è vero o non è vero che, per giungere a quella famosa Europa, di cui tanto si parla, è necessaria una politica italiana autonoma ed indipendente, ed è necessaria l’esistenza di un’Italia veramente autonoma ed indipendente? È questo obiettivamente vero? Ed allora, conseguenza di ciò è la necessità di una politica italiana autonoma ed indipendente, che non sarà soltanto una politica nazionale, ma una politica europea, e cioè la sola politica europea che noi possiamo concretamente fare. Non si fa una politica europea andando a parlare a Strasburgo e non risolvendo con i fatti il problema di Trieste. Si dice ancora: è vero o non è vero che, per giungere ad una vera Europa autonoma, è necessario praticare una politica euro-africana; ed è vero o non è vero che per praticare una politica euro-africana il popolo italiano ha una missione dominante? E, se questo è vero, quando si rivendica in termini nazionali, e sia pure nazionalistici, il diritto del popolo italiano a colonizzare l’Africa, si fa una politica europea, si fa l’unica politica europea che si possa fare. Capisco che è difficile -e lo dico con molto rammarico -convincere gli altri ad uscire da questo torpore che paralizza tutti i vostri movimenti. Ma, siccome si va continuamente parlando di gioventù aggressiva, e ne ha parlato anche l’onorevole Presidente del Consiglio, il quale al Senato, il primo marzo, riferendosi ai nostri giovani diceva di apprezzare da un lato i nobili sentimenti di questa nostra gioventù nazionale, ma di ritenere per certo che questo nazionalismo diventa «fatalmente aggressivo e guerriero», io questo «fatalmente», onorevole De Gasperi, nella situazione odierna, conoscendo intimamente, per averla vissuta, l’esperienza di questa gioventù , io questo «fatalmente» lo considero da parte sua un errore d’ incomprensione. Nessuno, può credere a nostre mire aggressive, né orientamenti nazionalistici in questo senso potranno allignare in seno alla gioventù italiana; ma fra il non aggredire ed il lasciarsi prendere a calci o a buffetti, sia pure elettorali, ci corre una bella differenza! È in nome di questa differenza che noi reclamiamo una diversa politica nazionale. D’altra parte, una tale politica si può fare solamente con gli italiani, perché non è la politica della Russia e nemmeno la politica dell’ America, sebbene in ultima analisi sarebbe l’unica politica che potrebbe giovare alla Russia e all’ America. A questo punto, un oratore comunista direbbe, come molte volte ha ripetuto l’onorevole Togliatti, rivolgendosi a voi: ma tale politica non la potete fare. Io mi limito a costatare che questa politica non la fate e sembra, non abbiate intenzione di farla; e questo è estremamente grave, perché è inutile (voglio fare an ch’io un poco il manzoniano) andare cercando lontano: bisogna scavare vicino, qui è la chiave della soluzione di tutto il problema, sia pure una lenta, ostinata, tenace soluzione; ma essa è qui, nel popolo italiano. Non si può fare una politica estera che non sia connessa ad una determinata politica interna, e voi che fate una politica estera di generosità, sia pure d’ involontaria generosità, dovreste almeno cercare di accompagnarla con una politica interna d’ autentica distensione e d’ uguale generosità: allora la cosa potrebbe forse passare. Ma quando voi vi voltate verso l’interno, allora le cose cambiano, e parlate davvero di politica di fermezza e d’ autorità, e allora montate a cavallo. Io vi dico: qualche volta, cercate di montare a cavallo anche quando trattate con gli stranieri, e scendetene quando conversate con gli italiani. Ho accennato anche a possibilità d’ iniziative concrete. I nostri fratelli di Trieste hanno chiesto un passo presso l’ONU, hanno chiesto il ricorso alla conferenza dei quattro ambasciatori, ed a questo riguardo io ricordo che anche a proposito delle opzioni io chiesi il ricorso alla conferenza dei quattro ambasciatori; mi fu data formale assicurazione, e non so se il ricorso sia avvenuto. Queste sono iniziative concrete, sì, possibili anche, ma che si traducono, poi, nell’inutile formalità di una protesta. Noi chiediamo qualche cosa di più, ed ancora una volta i colleghi democristiani saranno lieti di apprendere che io non mi faccio alcun’illusione circa la possibilità che questa nostra richiesta sia accolta dal Governo, ma al tempo stesso ritengo di rendere un servizio al paese facendola responsabilmente qui dentro, a nome di un numero d’italiani molto maggiore di quanto non crediate, perché non si tratta soltanto degli italiani che aderiscono al nostro movimento, ma degl’italiani, che sentono profondamente il problema di Trieste e la dignità del nostro paese. Noi chiediamo formalmente che il Governo denunci il trattato di pace. Non vi è da inorridire, perché una richiesta dello stesso genere è stata avanzata per altro motivo, meno drammatico di questo, nell’altro ramo del Parlamento, qualche mese fa, e nessuno inorridì. Se ben ricordo, la risposta del Governo fu allora molto equilibrata al riguardo. Allora fu chiesta la denuncia del trattato di pace per violazione esplicita del trattato stesso da parte delle altre potenze contraenti. Nel preambolo del trattato di pace è detto che tra le finalità del trattato vi è quella di stabilire relazioni amichevoli, dopo avere regolato le questioni pendenti, e fare entrare l’Italia nell’ONU. A questo impegno primordiale, che avrebbe dovuto tradursi in una più decisa difesa dei nostri interessi, le altre potenze non hanno ottemperato per motivi che non riguardano noi, che non concernono noi, che non sono attribuibili a noi, ma unicamente alla responsabilità delle altre potenze contraenti. Gli altri contraenti hanno, dunque, mancato ai loro impegni. Oggi noi siamo in presenza, da parte dei maggiori degli altri contraenti, di una condotta politica che aggrava questi precedenti e che denunzia, da parte loro, una sistematica insensibilità, una carenza d’ interessamento di fronte ai diritti sacrosanti del popolo italiano. Vi è, fra l’altro, un particolare umoristico: nel trattato di pace è stabilito che l’ Italia risponde anche dei danni che le Nazioni Unite subirono nel Territorio Libero di Trieste. Noi rispondiamo dei danni che essi subirono; ma i nostri danni? E del grave danno che deriva all’Italia da questo modo di trattarla, ingiurioso, inverecondo, di questo danno chi ne risponde? È mai possibile che il Governo italiano si limiti alla solita protesta diplomatica e ai soliti passi diplomatici? Nuocerebbe all’Italia, non solo al prestigio dell’Italia -non sto, quindi, reclamando una politica di prestigio -ma alla autentica difesa dell’Italia, agli interessi italiani, nuocerebbe una decisa denunzia da parte del Governo e del popolo italiano -perché in questo caso il popolo sarebbe accanto al Governo -del trattato di pace? Noi riteniamo di no. Noi invitiamo il Governo a prendere in seria considerazione questa proposta, che non nasce né da noi singoli, né dal nostro partito, ma è fortemente sentita in larghi strati della popolazione italiana. Io ho un sospetto, che non vuole essere offensivo per nessuno: cioè che il problema di Trieste non sia sufficientemente sentito, non sia compreso fino in fondo dagli uomini politici italiani. Però coloro che furono a Trieste durante le elezioni dello scorso giugno l ‘hanno indubbiamente compreso; perché non fu una battaglia elettorale, non fu passione politica, fu una specie d’ epopea nazionale. Trieste in quei giorni restituì all’Italia ciò che dall’Italia aveva avuto trenta anni prima. E lo deve ricordare particolarmente bene l’onorevole Presidente del Consiglio che di quella epopea nazionale ebbe l’avventura di vivere l’atto supremo, la consacrazione suprema: la sera del 10 giugno in piazza Unità è rimasta incancellabile nell’animo di tutti coloro che hanno avuto la grande sorte ed il grande privilegio di viverla insieme col popolo triestino. Era sentimento? No, era un atto di storia, era un fatto storico fondamentale nella vita del nostro paese. Trieste quella sera, in quei giorni, celebrò la sua vittoria, che non fu vittoria politica, ma vittoria storica. Trieste riconsacrò l’Italia a se stessa. Da Trieste partì in quei giorni una luce, che chiari a molti italiani, che in questi anni ne avevano perduto la nozione ed il ricordo, cos’è la nazione, cos’è la patria, cosa significa amare l’Italia. Trieste vinse allora, e noi siamo sicuri che Trieste vincerà ancora. Trieste ha ricordato agli italiani, ha radicato nuovamente negli italiani, anche nei più riottosi, il senso vivo della nazione. Trieste, nell’ambito internazionale, saprà ricordare agli europei, agli uomini civili europei e di tutte le parti del mondo, il senso vivo d’ Europa, della sua civiltà, della sua lotta contro ogni barbarie.”

Seduta del 4 giugno 1948

Vita politica

Il difficile esordio nella Camera dell’ 48   Il primo e l’ultimo discorso parlamentare: l’inizio e la fine della sua fatica parlamentare. Questi che seguono sono i testi dei discorsi pronunciati da Giorgio Almirante appena eletto deputato e quan do la fine della sua vita si avvicinava. L’uno fresco di inesperienza, molto vivo, esordio parlamentare eccezionale per quanto privo delle grandi qualità che egli affinerà negli anni successivi e che saranno evidenti in tutti i suoi interventi. L’ultimo con i segni della stanchezza fisica che non gli consentivano più l’eloquenza dei suoi tempi migliori L’uno e l’altro pregevolissimi non appartengono, quindi al meglio della sua oratoria (della sua che superava di molte spanne quella di tantissimi altri) li pubblichiamo come particolare segno di omaggio a questa sua enorme attività dellaquale si deve essere, come per tante sue altre, gratissimi.

ALMIRANTE: “Onorevoli colleghi, al termine delle sue lunghe, minuziose e consentitemi la parola -gelide dichiarazioni, il Capo del Governo ha cortesemente detto che dalla discussione che oggi si inizia in questa Assemblea egli attende un contributo di forza, di autorità e di consigli. Ahimé! Non soltanto perché io sono fra i primissimi a prendere la parola fra i deputati che non fanno parte della coalizione governativa, ma anche perché sono nuovo a questo ambiente e a questi dibattiti, io temo davvero di non potere dare un contributo di forza né di d’ autorità e temo anche che il Capo del Governo non ascolterebbe il mio consiglio Ho però una presunzione: quella di potere ispirare a lui ed a quest’, Assemblea, che così spesso si dimostra faziosa e così spesso, purtroppo, si dimentica del paese, di potere, dico, ispirare una speranza: la speranza cioè, che anche qui dentro si possa svolgere un’opposizione serena, un’opposizione intonata soltanto agli interessi dell’Italia, nel nome dei quali il Movimento sociale italiano intenderà battersi sempre. Premetto che non mi occuperò della parte sociale, economica e finanziaria, trattata dal Presidente del Consiglio, in quanto su questo argomento vi intratterrà uno dei miei colleghi. Noi non siamo onniscienti e non abbiamo la ventura di avere nel nostro Movimento uno di quei capi a tutto fare, che sono la delizia di altri partiti. In primo luogo, ho da fare un rilievo di carattere generale. Nel discorso del Presidente del Consiglio ho rilevato una singolare assenza di principi; vi ho individuato molte formule, ma non sono riuscito ad individuare un programma. Mi sono venuti in soccorso quei giornali, che si chiamano indipendenti e che, come sapete, non nascondono le loro simpatie vivissime per il partito di maggioranza. Essi hanno spiegato che si trattava di un discorso tecnico. È esatto. Ma voi sapete che la tecnica non è un fine; è un mezzo, è uno strumento. Voi sapete che, usando lo stesso strumento, il modesto vassallo lavora la creta e ne fa degli umili utensili, mentre l’abile artefice, con la stessa creta fa deliziose e delicatissime anfore. Leggendo attentamente le dichiarazioni del presidente del Consiglio, io mi domandavo assai spesso se mi trovassi di fronte al vasaio o all’artista. I giornali indipendenti, di cui parlavo prima, mi sono venuti anche a soccorrere dandomi un’altra spiegazione e dicendomi: «Attendete il Governo alla prova; aspettate i fatti; i fatti verranno». Esatto anche questo. È chiaro: noi attendiamo il Governo alla prova. Ma il Governo alla prova lo avremmo atteso in ogni caso, anche se le dichiarazioni del Presidente del Consiglio fossero state più esaurienti. Piuttosto, la spiegazione vera io l’ho trovata nello stesso discorso del Presidente del Consiglio, quando all’inizio egli ci ha spiegato quale è stata la formula con cui ha proceduto alla composizione o, meglio, per parlare con questo triste gergo parlamentare, al rimpasto del Governo.   Una voce all’estrema sinistra. Cambio della guardia!   ALMIRANTE . È la solita formula, che conosciamo da tempo: è la formula della conciliazione degli opposti. Di questa formula si è occupato e preoccupato anche il collega che mi ha preceduto. Ma io me ne occupo e preoccupo per ragione diversa. Egli ha espresso la preoccupazione che si faccia troppo dirigismo; io esprimo la preoc cupazione che non si diriga nulla, che si faccia del nullismo. Sulla barca governativa sono stati accolti dei remiganti i quali indubbiamente vogliono remare in direzioni opposte: al centro di questa barca l’onorevole De Gasperi ha innalzato una bianca vela, la vela del progressismo e dell’ innovazione; giacché ci ha comunicato nel suo discorso che la Democrazia cristiana è un partito innovatore e progressista. Ma noi temiamo fortemente che, remando gli uni in un senso e gli altri nell’altro e mancando purtroppo ancora il buon vento degli effettivi del paese, la barca si areni nelle solite secche. Temiamo fortemente di sentir dire ancora una volta che il cambio della moneta si doveva fare, ma non si è potuto fare per ragioni di Governo, che la riforma agraria si doveva fare, ma non si è potuta fare per ragioni di Governo, che la riforma industriale si doveva fare, ma non si è potuta fare per ragioni di Governo. Noi temiamo fortemente che si parli ancora una volta delle ragioni di Governo, delle ragioni di partito, delle ragioni di Parlamento e ci si dimentichi come spesso accade delle ragioni del paese che ci guarda ed attende da noi una parola di fede,di speranza; che vuole che noi lavoriamo per lui, perchè è il paese che ci ha mandato qui. Io temo fortemente che i malanni, che nei tempi passati ci procurarono le esarchie e le triarchie,si ripetono con questa tetrachia : sono i malanni della coabitazione,che gli italiani, ahimè, ben conoscono. Io capisco perfettamente che per l’onorevole De Gasperi sia molto più gradevole coabitare con l’onorevole Saragat e con l’onorevole Giovannini, che sono persone distinte e ben educate, piuttosto che con gli onorevoli Nenni e Togliatti,con i quali non andavano troppo d’accordo. Ma non è questo che ci interessa che non si coabiti più e che si lavori in un determinato senso e ci si dica dove si vuol portare questa famosa navicella governativa. La Democrazia cristiana ha raccolto suffragi importanti: ha una grossa responsabilità e deve rispondere di questa responsabilità. Il paese esige che l’epoca dell’irresponsabilità cessi definitivamente, perché troppi danni ci hanno già arrecato. Veramente, almeno un principio è stato affermato dall’onorevole De Gasperi: quello della democrazia rispettata. Dopo la democrazia occidentale e quell’orientale, dopo la democrazia diretta, tanto cara all’onorevole Togliatti, abbiamo imparato cosi una nuova definizione della democrazia, in attesa di apprendere e di vedere in atto finalmente la democrazia senza aggettivi; o, se un aggettivo vogliono darle, perché non chiamarla democrazia amata e perché non farla finalmente amare dal popolo? Infatti rinnovando e aggiornando un motto celebre, si potrebbe veramente dire: o democrazia, quanti delitti ed errori sono stati commessi in tuo nome in questo dopoguerra!Per evitare altri errori l’ onorevole De Gasperi ha indicato il sistema, dicendo che vuol rafforzare l’autorità dello stato. Sta bene.Vorremmo però sapere qualcosa circa la riforma della burocrazia civile,alla quale ha accennato e che è tanto importante sempre a questo riguardo, egli ha detto che vuole l’autodisciplina dei partiti. Mi permetta di osservare che si pecca un pochino d’ ingenuità,quando si chiede l’autodisciplina agli odierni partiti italiani, che non hanno nemmeno la disciplina. Si tratterà piuttosto di far valere sul serio i principi della Costituzione e di far sì che i partiti e le assemblee e gli organi di Governo siano effettivamente rappresentativi della volontà popolare e non di quella di ristrette minoranze oligarchiche. Il Presidente del Consiglio ha parlato della necessità di disarmare il paese.Siamo d’accordo, anzi invitiamo il Governo a fare veramente sul serio. Qualche tempo fa il capo di un partito disse scherzosamente ad un giornalista che per fare la rivoluzione gli occorrevano mille mitra. Le impressionanti statistiche citate dal Presidente del Consiglio ci hanno fatto sapere che v’erano 876 di più,perché 1876 ne sono stati già sequestrati nel breve periodo di tempo che egli ci ha citato.Ringraziamo dunque iddio che ci ha evitato la rivoluzione.   Ma stiamo in guardia. Ci narra Lamartine che in una sola notte le autorità rivoluzionarie francesi seppero disarmare Parigi che brulicava di armi clandestine. Noi sappiamo che l’onorevole Scelba non è Danton, e credo che questo faccia piacere anche all’onorevole Togliatti,come fa piacere a tutti noi. E’ il caso tuttavia di prendere molto sul serio quest’ argomento,molto più sul serio di quanto esso non sia stato preso sinora, perchè ci siamo trovati molte volte- ed il Governo lo sa benissimo- sull’orlo di un precipizio. Il Presidente del Consiglio ha parlato di rispetto dei diritti costutizionali. Siamo d’accordo anche in questo. non vorremmo però si dimenticasse quel provvidenziale articolo 138 della Costituzione nel quale si parla della possibilità di rivedere il testo costituzionale. Voi sapete benissimo in quale clima di compromesso e di faziosità è nata questa Costituzione. Voi sapete benissimo- e lo ha confessato la stampa di tutti i partiti- che il testo costituzionale risente di quel clima. bisogna che di questo l’Assemblea legislativa abbia piena coscienza. E un argomento sul quale ritorneremo, limitandoci, perora a sfiorare un aspetto. Il Presidente del Consiglio ha sorvolato sul problema dell’Ente Regione, tranne un breve cenno a proposito della riforma agraria. Non so se egli abbia evitato l’argomento appositivamente. Spero che sia così,altrimenti debbo rivelevare che con la costituzione dell’Ente Regione si minaccia, in maniera forse irreparabile, l’unità del paese. A proposito di tale unità,il Presidente del Consiglio ci ha parlato dell’esercito e, con una felice ripetizione,egli ha detto che l’esercito è la difesa vivente di un paese cui sono state tolte le difese. Si, l’esercito è vivente;vivente,però, non soltanto nell’attimo che passa, vivente non soltanto con quello che sono le sue schiere ridotte d’ oggi,ma con tutti i suoi vivi ed i suoi morti ,vivente nel tempo con le sue tradizioni gloriose, vivente nei reduci e nei profughi. Di questo il Presidente del Consiglio non si è ricordato e noi ce ne rammarichiamo. E’ un problema tremendo,è un problema angoscioso.Si dirà che i precedenti Governi hanno fatto molto per i reduci e per i profughi,si dirà che hanno speso molto denaro e si citeranno le solite statistiche. A quelle statistiche io non risponderò con altre statistiche, ma risponderò con le lacrime, con le sofferenze, col dolore che tuttora si sprigiona dalle migliaia e migliaia di reduci senza lavoro, di profughi senza tetto.Da questo punto di vista noi chiediamo al Governo garanzie precise e definitive, chiediamo che si dia inizio ad una effettiva politica, non dirò di assistenza, Perché la parola suonerebbe offesa-sono essi che ci hanno assistiti quando la Patria era in pericolo-, ma di comprensione nei riguardi dei reduci e dei profughi.Essi devono essere sempre, in ogni in ogni istante, il nostro primo pensiero. A proposito dell’esercito, è forse sfuggita al Presidente del Consiglio una frase pericolosa. Non vorrei dare l’impressione di fare qui questione di parole, ma egli ha detto che l’esercito darà prova di «lealtà verso il regime voluto dal popolo». Avrei preferito che egli dicesse che l’esercito darà prova di fedeltà alla Nazione.   Non vorrei che si preparassero nuovi casi Tamagnini per l’avvenire. Sempre a proposito dell’esercito, il Presidente del Consiglio dei Ministri ha, molto giustamente, parlato delle nostre tradizioni. Ora, tra queste tradizioni ve n’è una che forse si eleva sopra tutte le altre: è la nostra tradizione coloniale. Anzi, questa parola è inadeguata, direi piuttosto: «La nostra tradizione civile», perché noi non abbiamo colonizzato, ma abbiamo civilizzato. Non siamo stati dei coloni, ma dei pionieri. Ora, da questo punto di vista le dichiarazioni dell’onorevole De Gasperi sono state veramente insoddisfacenti per noi. Egli ha detto che i nostri lavoratori e le nostre imprese andranno in Africa centrale per conto degli inglesi e d’altri imprecisati. Quanto, poi ai nostri diritti sulle nostre terre africane, egli si è limitato ad esprimere un po’ vagamente la speranza che tali diritti siano in qualche modo tenuti presenti. Debbo dire che non è questo il linguaggio che il popolo italiano attende dal Presidente del Consiglio. Badate, io non voglio affatto fare delle affermazioni retoriche. Mi rendo conto delle tremende difficoltà e degli angosciosi problemi che si presentano a coloro che hanno oggi il timone della politica italiana. Ma non bisogna esagerare: è ancora caldo il sangue degli italiani caduti a Mogadiscio per colpa e per responsabilità degli inglesi. Il popolo italiano non ha avuto ancora soddisfazione: e già si parla di mandare dei lavoratori italiani a lavorare nell’ Africa centrale per conto degli inglesi e di altri imprecisati. Dove, di grazia? Con quali garanzie? Forse nelle terre dove nessun uomo bianco può avventurarsi, perché ci si muore? E se veramente gli inglesi vogliono il contributo del lavoro italiano in Africa, per quale ragione essi non vogliono che i lavoratori italiani si rechino nel Gebel cirenaico che fu fecondato dal nostro lavoro, che aspetta il nostro lavoro? Perché, se al principio del secolo si parlava di «mal d’Africa», oggi si può parlare veramente di «mal d’Italia». Come si diceva un tempo che noi volevamo l’Africa, oggi si può dire che l’Africa ha bisogno di noi, che è l’Africa che vuole noi e il nostro lavoro. È accaduto quello che non era mai successo nella storia coloniale di tutti i popoli e di tutti i tempi: è accaduto che commissioni d’ indigeni hanno richiesto insistentemente il ritorno di una potenza occupante, di una sola potenza occupante: l’Italia! Questa è una grande vittoria del popolo italiano, della civiltà italiana; dirò di più, è l’unica grande vittoria civile che sia stata celebrata in questo odioso dopoguer ra, in cui i cosiddetti vincitori hanno dimostrato di aver veramente perduto la partita, perché hanno perduto la pace Di questa vittoria, di questa vittoria italiana il Governo si deve fare arma e strumento per agire sull’opinione pubblica internazionale e per reclamare dignitosamente, ma fermamente, i nostri diritti africani. A questo argomento se ne collega un altro, in maniera diretta: la revisione del diktat. La pattuglia del Movimento sociale italiano ha l’onore di annoverare nelle sue file uno dei pochissimi deputati che l’anno scorso in quest’ Aula si opposero alla rettifica, l’unico che si oppose alla firma: l’onorevole Russo Perez. Un anno fa gli fu detto che bisognava firmare subito, perché altrimenti l’Italia non sarebbe potuta entrare nell’O.N.U.: è trascorso un anno, e l’Italia nell’O.N.U. non è entrata. Anche da questo punto di vista le dichiarazioni del Presidente del Consiglio non sono soddisfacenti. Egli ci ha detto che alla formula della revisione formale ed integrale è per ora da preferirsi la formula della revisione rapida ed elastica. Sono due strani aggettivi. Io vi prego di andare a dire ad un triestino, ad un istriano, che la revisione è rapida. Sì, è vero, dieci, venti, cinquant’anni di storia sono nulla per un popolo; ma per chi soffre un’ora è anche di troppo, e ci sono molti, troppi italiani che stanno soffrendo in seguito alla firma del trattato di pace. Pensiamo a loro e non sempre alle solite ragioni politiche, alle solite ragioni di Stato. Quanto, poi, alla revisione elastica, mi rimetto all’ Assemblea per il giudizio che essa può dare sulla validità di quest’ enigmatico aggettivo. Quanto ha detto il Presidente del Consiglio in materia di politica estera, di uniformi doganali, di possibilità d’ intesa con i Paesi dell’Europa occidentale deve essere, a nostro parere, assoggettato a questo fondamentale argomento: revisione del Trattato di pace; partecipare, sì, a tutte le intese; partecipare, sì, a tutte le unioni, ma sul piede di parità. Altrimenti, se il nostro destino deve essere ancora quello di colonia o di semicolonia, sono inutili le belle formule. Esse non servono a mascherare una realtà di fatto. Noi dobbiamo reclamare giustizia per gli italiani nel mondo, perché, senza la giustizia per gli italiani, nel mondo non vi può essere la pace. Siete proprio voi, partito di maggioranza, che lo sapete e lo proclamate: opus justitiae pax. Ma questo non può avvenire soltanto di fronte all’estero: questo deve avvenire all’interno. Deve esservi giustizia all’interno e, perché giustizia vi sia, deve esservi parità all’interno, parità di diritti tra tutti gli italiani di buona volontà. Il Presidente del Consiglio ha avuto un merito: quello di affrontare l’arduo tema della pacificazione durante il suo discorso. Veramente, ho detto troppo: egli non lo ha affrontato, lo ha semplicemente sfiorato. Citerò al riguardo, molto brevemente, qualche parola scritta o detta da autorevoli personalità che fanno parte di questa Assemblea: «…i principi democratici -scrivono due personaggi che voi conoscetesecondo i quali nessuna discriminazione deve esser fatta tra i cittadini per le loro opinioni politiche o sociali». Queste parole -forse vi stupirà -si leggono in una interrogazione presentata oggi alla Camera dall’onorevole Togliatti e dall’onorevole Gian Carlo Pajetta. È vero che tale interrogazione si riferisce alla democrazia americana; ma credo di poter affermare che questi principi debbano ovunque ritenersi validi. Ma voglio citarvi un’altra frase: «Basta dunque con le rappresaglie! Bisogna arrivare ad un’equa giustizia da tutte le parti, alla giustizia per tutti, anche per esempio per tutti i delitti politici, per tutte le ingiustizie politiche che si siano potute deplorare in passato». Queste parole sono ancora più impegnative e importanti perché le pronunciò lo stesso Presidente del Consiglio, onorevole De Gasperi, a Genova, in un suo discorso elettorale, l’11 aprile. Spero di non essere stato indiscreto citando frasi elettorali, perché sono sicuro che l’onorevole Presidente del Consiglio, il quale parlava anche allora in qualità di Presidente del Consiglio, non vorrà smentirle; perché il popolo italiano lo ha rieletto anche per questo, anzi soprattutto per questo. Mi conforta dunque la speranza che si vorranno cancellare una buona volta quegli obbrobri che passano sotto il nome di leggi eccezionali. Mi conforta, dicevo, questa speranza, perché è una voce che sento ormai levata spesso dalla stampa italiana: e non solo da quella cosiddetta indipendente, ma anche da organi di partito. lo non intendo, onorevoli colleghi, affrontare ora una disquisizione giuridica, ma mi permetto semplicemente di dire che la stessa formula di «leggi eccezionali» è insostenibile perché, se sono eccezionali, non hanno qualità di legge e in questo caso l’eccezione non conferma la regola, ma la uccide. La Costituzione esclude la possibilità di leggi retroattive. Ci sono però le cosiddette disposizioni transitorie; e allora il problema si riduce a questo: vogliamo vivere eternamente in uno stato provvisorio, vogliamo camminare sempre sull’orlo dell’abisso, o vogliamo veramente, una buona volta, avviarci verso la grande pianura del progresso e della ricostruzione? Si dice che si tratta di questione irrilevante, si dice che si tratta di pochissimi detenuti…”

GRASSI: Ministro di grazia e giustizia. “Sono circa duemila.”

ALMIRANTE: “…ma debbo rilevare che quando si chiedono dati precisi al Ministero della giustizia, questi dati non si riesce ad averli; debbo rilevare con stupore che lo stesso Istituto di statistica non ha dati precisi e, soprattutto, non ha dati riferentisi ai singoli cosiddetti reati. lo quindi non so se questi detenuti siano pochi o molti; ma quand’anche, come dice l’onorevole Ministro Grassi,–‘essi siano soltanto duemila, ebbene: per chiudere in galera duemila persone, vi pare opportuno e giusto tenere in piedi questa spaventevole bardatura di leggi eccezionali? Quand’anche ci fosse una sola madre, quand’anche ci fosse una sola moglie o una sola sorella a piangere, queste lacrime basterebbero a disonorare un Paese.”

CAPPUGI: “Venti anni di fascismo! Le leggi eccezionali chi le ha fatte?”

MIEVILLE: “Io stavo a combattere.”

CAPPUGI: “Non è il pulpito adatto per questa predica.”

ALMIRANTE: “Se poi queste leggi riguardassero molte persone, allora il permanere delle stesse sarebbe evidentemente un insulto alla democrazia. Quindi, tanto nell’un caso quanto nell’altro è necessario e urgente abolirle.”

TOGLIATTI: “Chiede la carità!”

ALMIRANTE: “Non chiedo la carità, onorevole Togliatti, io parlo in nome dell’Italia che ha troppo sofferto. Una voce all’estrema sinistra. Parla in nome dei fascisti, non dell’Italia!”

ROBERTI: “Da qualunque parte si dica, è sempre la verità, onorevole Togliatti!”

CAPPUGI: “Ci vuole un po’ di pudore!”

ALMIRANTE: “Avete ucciso la democrazia.”

Una voce al centro: “Con quale coraggio parlate voi di democrazia? “

TOGLIATTI: “Abbiate il coraggio di stare in carcere quando vi tocca!”

ALMIRANTE: “Si dice da alcuni che vi sono ragioni internazionali che ci vietano di abolire le leggi eccezionali. Non è vero. Queste ragioni esistevano con l’armistizio; col trattato di pace non esistono più: esso all’articolo 15 considera soltanto il caso dei criminali di guerra e non le leggi di carattere eccezionale. Colui che qualche anno fa innalzò questo tempio d’ingiustizia ebbe a chiamarlo «tempio, tetrastilo», usando una formula greca, forse perché alla lingua latina, la lingua del diritto, ripugnava una definizione di questo genere. Oggi questo tempio a quattro colonne o è crollato o sta crollando; ma sotto le macerie troppa gente ancora soffre, troppi italiani soffrono. Si teme forse che essi possano, come diceva il Presidente del Consiglio, rientrare nella famosa spirale della vendetta. Non è vero: essi l’hanno spezzata, essi vogliono rientrare nel circolo degli affetti familiari, essi vogliono lavorare per l’Italia. Con questo auspicio, o colleghi -che finalmente si possa lavorare per l’Italia in un’atmosfera veramente pacifica e pacificata -il Movimento sociale italiano inizia la sua attività parlamentare, che sempre condurrà da questo punto di vista e con questo preciso intento. Non importa che la nostra pattuglia sia ristretta: è grande il nostro cuore d’ italiani!

Seduta del 21 Aprile 1987

L’ultimo intervento (governo Fanfani)

ALMIRANTE: “Signor Presidente, onorevoli colleghi, signor Presidente del Consiglio, fino al pomeriggio di ieri, cioè; fino al suo discorso introduttivo, signor Presidente del Consiglio, ed ai relativi commenti autorevoli, circolavano negli ambulacri di Montecitorio, e credo anche di Palazzo Madama, due sospetti. Il primo sospetto riguardava noi ed il nostro comportamento. Si parlava cioè di un complotto, di una congiura, di un’intesa di centro-destra (Movimento sociale italiano, Democrazia cristiana e Presidente del Consiglio) per renderle più lieve il compito, per accompagnarla cortesemente sino al decesso rapido dell’attuale Governo per poi celebrare, anche con il suo concorso, le elezioni politiche anticipate. Fino ah ieri circolava (e continua a circolare, almeno per quel che riguarda le mie modeste informazioni) un altro sospetto: quello di una intesa di centro-sinistra, fino all’estrema sinistra, per lasciar cadere il discorso delle elezioni anticipate, per porre invece con fermezza il discorso delle consultazioni referendarie. E questo secondo sospetto avrebbe comportato e comporterebbe un’intesa, lo ripeto, fino all’estrema sinistra, un’intesa che, in questo momento, sembra codificata e rappresentata (non so se posso dire “autorevolmente”, ma certo con molta insistenza) dall’onorevole Pannella. Le mie condoglianze, signor Presidente del Consiglio, perchè dopo tanti anni di carriera politica ricevere la fiducia solitaria dell’onorevole Pannella non credo che le possa piacere troppo, la possa qualificare ulteriormente…”

RUTELLI: “Dopo un ventennio può capitare anche questo!”

ALMIRANTE: “Può capitare tutto e può capitare anche questo. Anzi sta capitando anche questo …”

RUTELLI: “Questi sono i nostri ventenni, non i vostri!”

ALMIRANTE: “Non ho bisogno di ricorrere a citazioni: ho qui davanti a me Notizie radicali, in cui l’atteggiamento pro Fanfani da parte dell’onorevole Pannella e del gruppo radicale…”

STANZANI GHEDINI: “Il riferimento era al funerale”

ALMIRANTE: “Auguri! Presidente, faccia gli scongiuri! Io li faccio anche per conto suo e di tutti i colleghi, senza alcuna eccezione. Esibisco un mio argomento: si tratta di una minima alzata nel saluto romano ma contratta nella preghiera che tutti ci accomuna. Dopo il suo discorso di ieri, signor Presidente del Consiglio, dopo i primi autorevoli commenti, le prime prese di posizione, credo che del primo sospetto non sia più il caso di parlare, almeno per quanto ci riguarda e per quanto mi riguarda personalmente come segretario del Movimento Sociale Italiano tutto intero e, ovviamente, a nome del gruppo che mi onora in questo momento con la sua folta presenza, io ripeto quello che stiamo dicendo con chiarezza da parecchi giorni a questa parte, anche dinanzi agli schermi televisivi: noi voteremo sfiducia nei suoi confronti, signor Presidente del Consiglio, e nei confronti del Governo che lei presiede. Credo che non se ne meraviglierà, perchè la nostra coerenza all’opposizione non è mai stata offuscata (e ritengo di poterlo dire). Questa essendo la nostra posizione, è assurdo parlare, come qualcuno sta facendo, di un’intesa (si figuri…) fra Democrazia Cristiana, Partito Comunista e Movimento Sociale Italiano. Non aspiro e non aspiriamo a combinazioni di questo genere, che non ci offendono ma che sono fuori della realtà”

FANFANI: “Sarebbe un incontro ecumenico!”

BIONDI: “Sarebbe uno e trino …”

ALMIRANTE: “Non sarebbe affatto ecumenico, a meno che lei, senatore Fanfani, non si assuma la parte di pontefice. Con un suo pontificato, e non con una sua regia parlamentare, può darsi che si possa arrivare persino a risultati di quel genere, che comunque sono fuori della realtà politica e concettuale in questo momento. Sicché, a nome di tutto il Movimento Sociale Italiano-Destra Nazionale, confermo la nostra sfiducia a questo Governo. Voglio anche dire con assoluta sincerità, onorevole Fanfani, che due aspetti della sua impostazione ci sono sembrati positivi: prima di tutto la riduzione abbastanza consistente del numero dei ministri e dei sottosegretari; secondariamente l’ingresso nel Governo, per sua volontà, di un gruppo rispettabilissimo (che ella ha ringraziato per la generosità dei singoli e dell’insieme) di tecnici e di competenti.

Tuttavia, nei confronti di queste due valutazioni desidero essere più schietto e completo possibile, per rilevare che non ci facciamo alcuna illusione a proposito della riduzione del numero dei ministri e dei sottosegretari. Non appena si passerà, dopo le elezioni politiche, al nuovo Governo, penso che la partitocrazia nostrana seguirà le norme che sta seguendo da più di quarant’anni.

Ricordo come sono cominciate tali vicende; allora le leggevo sui giornali, non ero ancora entrato in Parlamento. Lei, onorevole Fanfani, era già; membro della Costituente; sa, quindi, e meglio di me ricorda come nacque, numericamente, il primo Governo del CLN: tre per sei fa diciotto (si riteneva infatti che fossero sei i partiti del CLN). Quando, poi, vi fu la consultazione elettorale ed i partiti del Comitato di liberazione nazionale diventarono tre, giacché gli altri non furono in grado di portare neppure un eletto in Parlamento (il che dimostra l’assoluta inconsistenza di quelle formazioni politiche, dal punto di vista democratico) si fece, allora, semplicemente sei per diciotto (come prima si era fatto tre per sei diciotto), e tanti rimasero i ministri. Successivamente il loro numero si è sempre andato estendendo. Una delle proposte, non certamente la più importante, che noi porteremo avanti (ne parlerò fra poco) nel nostro progetto di revisione integrale della Costituzione della Repubblica italiana, sarà quella di riformare la Presidenza italiana, sarà quella di riformare la Presidenza del Consiglio nel suo funzionamento, e quella relativa al numero dei ministri e dei sottosegretari, onde fissare una volta tanto, finalmente, il loro numero e non esporsi più a soluzioni ad organetto, come questa che, per fortuna, è riduttiva, a differenza di quasi tutte le precedenti, estensive. Il fatto che ella abbia portato un numero inferiore al solito di ministri e sottosegretari rappresenta, senza dubbio, una sua benemerenza nei confronti della nazione italiana.

Sappiamo tuttavia benissimo che non ne ha nominati di più perchè non poteva farlo, come pure sappiamo altrettanto bene che gli ex ministri democristiani sono rimasti tutti attaccati alle loro poltrone, tranne qualche rarissimo caso. Così dicasi anche per quanto riguarda le competenze tecniche. Le dico sorridendo (non si offenda, onorevole Presidente del Consiglio) che si tratta di una sorridente vendetta della storia che, quando vuole sorridere, dà le sue lezioni in maniera accettabile. Lei ha dimenticato (ha fatto bene dal suo punto di vista) le lezioni di dottrina corporativa che una volta impartiva a giovani che non sapevano, come lei stesso, del resto, quale sarebbe stato l’avvenire. Adesso, quel tantino di corporativismo che si è riusciti a mettere in atto lo ha realizzato come Presidente di questo Governo, utilizzando talune competenze. Il matrimonio fra tecnica, competenza e politica è tipico della concezione corporativa; lo dico in senso positivo e non deteriore. Mi è dispiaciuto che proprio lei, onorevole Fanfani, abbia ripreso la solita espressione di “le spinte corporative”. Lei sa benissimo che il corporativismo fu una cosa, comunque giudicabile, ben più seria e profonda delle battutine tardive, e nel suo caso molto tardive. Me ne dispiace… Non me ne compiaccio certamente.”

FANFANI: “Le “spinte” cui mi sono riferito sono relative alle corporazioni medioevali … “

ALMIRANTE: “Se è al medioevo che facciamo riferimento, è cosa diversa. Lei di medioevo si intende… “

BIONDI: “Le corporazioni del medioevo erano cosa seria! Dante Alighieri si iscrisse a quella dei medici e speziali, una sorta d’ USL dell’epoca…!”

ALMIRANTE: “Francamente, benché anziano come lei dice, benché vecchio come dico io, fino al medioevo sono in grado di arrivare. I miei complimenti, comunque, per la continuità, dal medioevo fino ai nostri giorni. Neanche questo secondo aspetto, che sembra essere positivo, lo è in realtà, nel senso di far mutare il nostro atteggiamento nei confronti del Governo. Lei, onorevole Fanfani, ha trovato la generosa adesione di uomini, di tecnici, di scienziati che sanno benissimo che breve sarà la loro avventura governativa. Mi complimento per questo relativo successo, anche se è stata fatta qualche confusione: vediamo, per esempio, un entomologo dirigere la politica del turismo”

FANFANI: “Ha letto male! L’entomologo è destinato alla conservazione della natura.

BIONDI: “Un po’ di turismo ci vuole anche in questo caso”

ALMIRANTE: “Comunque, non avevo detto cosa veramente sbagliata: mi sembra di aver notato qualche confusione, come l’hanno notata i giornali, per quanto si riferisce alle attribuzioni di cosiddetta tecnica e di cosiddetta competenza. Comunque, evviva i tecnici ed i competenti, in questo che finora è stato il regno dell’incompetenza, in quasi tutti i suoi settori.

Procediamo ulteriormente nel giudizio su questo Governo e su questa situazione. Io mi permetto di far rilevare (e questo è il concetto al quale più di tutto teniamo noi missini) che non ci troviamo, in realtà, di fronte ad una crisi di Governo o ad una crisi di maggioranza e di Governo: ci troviamo, invece, di fronte ad una crisi di sistema e di regime. La realtà è che tutte le istituzioni sono in crisi. Lo hanno dimostrato e lo stanno dimostrando ampiamente le recenti e rabbiose polemiche, che non si erano mai verificate in passato e che sono un fatto nuovo, doloroso e grave per tutti noi, come cittadini di questa Repubblica: alludo alle polemiche tra il Presidente della Repubblica e (in quel momento) il Presidente del Consiglio.

Non voglio stabilire se avesse ragione l’uno o l’altro, anche se molto probabilmente il Presidente del Consiglio si è lasciato trascinare dal suo temperamento, spesso incompatibile con le norme della buona educazione cosiddetta democratica. Comunque, sta di fatto che siamo di fronte ad una crisi di sistemi e di regime. Non è la prima volta che lo diciamo: ci siamo onorati di dirlo da diversi anni a questa parte. Qualcosa comincia finalmente a tradursi in realtà. Lo stesso onorevole Craxi ha fatto propria (senza naturalmente citare la fonte: ma non ha alcuna importanza) una delle tesi da noi sostenute, cioè le necessità che il Presidente della Repubblica sia eletto direttamente dal popolo. Gruppi parlamentari come quello socialdemocratico hanno presentato abbastanza recentemente proposte di legge per l’elezione diretta del sindaco: e non si tratta di una riforma meno importante della precedente, anzi in qualche modo si può dire che sia addirittura più importante. Si sta, molto lentamente e faticosamente, determinando una coscienza popolare sulla necessità di

riformare il sistema. Così, appunto, il Movimento Sociale Italiano-Destra Nazionale qualifica la sua azione di opposizione. Non stiamo chiedendo le elezioni politiche anticipate per elettoralite acute. Non stiamo chiedendo (ho il coraggio di ammetterlo di fronte ai miei carissimi colleghi) le elezioni anticipate perchè siamo matematicamente certi di migliorare le nostre posizioni. Stiamo chiedendo le elezioni anticipate per cominciare a dar luogo ad un rinnovamento globale della Costituzione.

Non vi offendete, non prendetevela a male. Quello che sto dicendo non vuol essere affatto provocatorio, anche se mi rendo conto che può sembrarlo. Bisogna che tutti prendano atto che la Repubblica nata dalla Resistenza è morta e bisogna celebrarne i funerali. Non lo dico polemicamente. Mi rendo conto che è difficile, per ciascuno di voi, almeno per coloro che hanno militato nei ranghi della Resistenza, accettare un simile discorso: ma io lo faccio egualmente. Quando noi anziani (o noi vecchi), che siamo giustamente legati alle nostre memorie ed alle nostre vecchie tradizioni, parliamo un linguaggio che ci sembra attuale e che invece attuale non è, quando voi insistete a proposito dei valori della Resistenza ed io insisto sui contrapposti valori della Repubblica sociale italiana, io vi dico che non sono disponibile a cedere su questo piano: non sono disponibile a rinnegare; e ricordo a me stesso che il vecchio motto del Movimento Sociale Italiano fu inventato da Augusto De Marsanich, che fu splendido segretario del partito e che insegnò nella sua esperienza, nella sua pulizia, nella sua estrema correttezza morale, nella sua grande capacità politica, a non rinnegare e a non restaurare. Non siamo disponibili per rinnegare; ma (abbiamo dato l’esempio, e continuiamo a darlo) siamo capaci di non restaurare. La nostra non è una tradizione che pigramente pensiamo di poter inserire immutata nel presente e nell’avvenire del nostro paese. Noi pensiamo di rinnovare noi stessi, di dare esempio di capacità di rinnovamento da parte nostra; pensiamo che sia venuta l’ora per riconoscerci in una Repubblica diversa, adeguata alle necessità dei tempi, in una Repubblica che sappia davvero rappresentare il punto di

incontro tra tutti gli italiani.

Lo posso affermare con assoluta anzianità di proposta, perchè, onorevole Presidente del Consiglio, non pretendo che lei possa ricordarsi delle antiche proposte del Movimento Sociale Italiano, quando era ancora, come dicevate tutti quanti deridendoci, forse anche giustamente, il movimentino senza importanza; ma quel movimento senza importanza tanti anni fa, quarant’anni fa, ebbe il coraggio, non appena entrato in quest’aula nel 1948, di proporre (non potevamo fare altro che proporre: eravamo cinque) un referendum sulla Carta costituzionale, che era stata varata senza il concorso del popolo italiano. Era il 1948, la nostra proposta non fu presa sul serio. Dopo quaranta anni ci risiamo, abbiamo avuto ragione. Non ne siamo lieti, preferiremmo aver avuto torto, preferiremmo che gli istituti (a cominciare dal Presidente della Repubblica fino al Presidente del Consiglio, fino, ripeto, al sindaco di ciascuna città o paese) funzionassero. Gli istituti, però, non funzionano. La crisi che si è determinata nelle scorse settimane ha superato (mi dispiace dover usare termini pesanti) per indecenza tutte le precedenti crisi.

Sui giornali e sui settimanali a grande tiratura sono comparse antologie divertenti, che non voglio ripetere o leggere qui: non voglio approfittare di quanto pubblicato dalla stampa; sono apparse, dicevo, vere e proprie antologie delle parolacce che vi siete scambiati, delle parolacce che si sono scambiati uomini politici di indubbia capacità, di notevole fama, qualche volta anche di una certa popolarità, i quali hanno completamente perduto il controllo di se medesimi e non hanno saputo, non riescono, ad esprimersi in termini civili e corretti perchè il male è andato nel profondo.

So benissimo che non basterà certamente (perchè ci si arriverà) l’elezione popolare del Capo dello Stato per risolvere il problema, però mi fa piacere, non mi dispiace affatto, non temo e non temiamo le concorrenze, cerchiamo le convergenze, quando è possibile cercarle, sui grandi temi ed anche su problemi minori, perchè questa è la nostra funzione, questa dovrebbe essere anche la vostra funzione, la funzione di tutto il Parlamento italiano; non ci dispiace affatto, dicevo, se voi raccogliete nel terreno che noi stiamo seminando. Raccogliete pure, Iddio lo voglia, per l’interesse del nostro Paese, ma non è possibile ritenere che con una spolveratina di fiducia in più o in meno si possano risolvere problemi critici, che intaccano la situazione. Lei, senatore Fanfani, ha detto spiritosamente che due parole magiche si sono succedute ed accavallate nelle scorse settimane; la staffetta da un lato e la stabilità nel governare dall’altro; stabilità vantatissima dall’onorevole Craxi e dai suoi colleghi, ai quali ella ha fatto male, se mi permette, a non rispondere che la stabilità ha grande importanza purchè sia stabilità nel bene e non stabilità ed insistenza nel male. Qualche settimana fa abbiamo ascoltato il discorso dell’onorevole Craxi, che doveva essere il discorso di addio e che, invece, è stato semplicemente di arrivederci, nelle sue intenzioni; uno strano e singolare discorso che l’onorevole Craxi ha condotto dalla a alla zeta sul tema della valorizzazione della sua opera, della stabilità del suo Governo, della realizzazione o quasi realizzazione di tutta una serie di riforme, peraltro esistenti solo di nome e non certamente di fatto.

Ella ha fatto male, onorevole Presidente del Consiglio, a non rispondere immediatamente che la stabilità tanto vantata da parte del Presidente del Consiglio del precedente Governo, in realtà non ha portato alla soluzione di alcun problema, fra i tanti gravissimi che purtroppo continuano ad affliggere il nostro paese, a cominciare dal problema della disoccupazione, e di quella giovanile in particolare.

Stando così le cose, noi vogliamo e ci stiamo comportando in guisa tale da ten tare di riuscire a raggiungere questo obiettivo non per noi ma per il popolo italiano, noi vogliamo una campagna elettorale anticipata che sia una vera e propria campagna per una nuova Costituente, non nel senso letterale del termine, ma nel senso vero e sostanziale del termine. Noi vogliamo un Parlamento nuovo, per una nazione nuova, per una Repubblica da rivedere e da revisionare intus et in cute, in modo che non si continui a bamboleggiare, come si sta facendo, tra una dichiarazione di Pannella e l’altra. Ora, signor Presidente del Consiglio, tutto ciò premesso e ripetendo quello che ho detto poco fa, e cioè che noi amiamo le convergenze e non temiamo le concorrenze, sono costretto a dirle, a seguito del suo discorso di ieri, qualche cosa che è molto spiacevole per me dire e penso che sarà spiacevole per lei ascoltare, ma non posso farne a meno. Non so chi le abbia consigliato, se per caso ella ascolta i consigli di qualcuno, e non lo credo, di fare ricorso alla sua memoria per ricordare come momento felice della sua lunghissima esperienza politica l’estate del 1960, cioè il Governo Tambroni, la caduta di quel Governo, la pugnalata data alle spalle di quel Governo e di quell’uomo, la pugnalata che si tentò di dare alle spalle del Movimento Sociale Italiano e di tutto ciò che il Movimento Sociale Italiano rappresentava e continuava a rappresentare. A questo punto però è necessario, e credo che sia anche opportuno, che io le ricordi qualche cosa, perché qualche cosa lei deve aver dimenticato, e me ne dispiace per lei, perché il discorso è molto grave. Ci trovavamo nel giugno-luglio 1960. Il Movimento sociale italiano in quel momento non aveva me come segretario del partito, ma l’onorevole Michelini. Noi non siamo abituati a rinnegare i nostri morti, e le responsabilità di Genova me le assunsi allora e me le assumo dopo tanti anni per ricordarle, signor Presidente del Consiglio, che si tratta di un tema che bisogna affrontare con estrema delicatezza. Prima di tutto perché Genova medaglia d’oro, Genova medaglia d’oro della Resistenza, in quel momento fu prescelta da noi per tenere un congresso, un libero congresso, nostro diritto e nostro dovere, non a fini provocatori, signor Presidente del Consiglio. Non a fini provocatori, perché qualche settimana prima il sindaco democristiano di Genova medaglia d’oro della Resistenza aveva ritenuto di accettare come determinanti per la possibilità di essere eletto sindaco di quella città i voti dei tre consiglieri missini, ai quali il sindaco democristiano e resistenziale di Genova, non aveva ritenuto di chiedere particolari abiure o particolari giuramenti, ma ne aveva accettato la collaborazione, che era collaborazione senza condizioni, senza contropartite, che era collaborazione soprattutto in pulizia e senza gli scandali che negli anni successivi hanno sporcato la città di Genova e la città di Torino più di altre città del settentrione d’Italia.

In quel momento il Movimento sociale italiano riteneva di tenere il suo congresso nella città del nord che aveva dato al Movimento sociale italiano la più valida tra le soddisfazioni politiche, e non soltanto politiche. Infatti, vedere in Genova, culla della Resistenza, i tre consiglieri missini, con voto richiesto e accettato senza condizioni degradanti, tenere in piedi l’amministrazione, sembrò all’onorevole Michelini e a tutti noi motivo validissimo per accondiscendere al desiderio dei nostri amici di Genova perché tenessimo nella loro città il nostro congresso. Io c’ero, onorevole Presidente del Consiglio, lei no. Io c’ero il giorno prima che il nostro congresso iniziasse, c’ero quando un’imponente (lo debbo riconoscere) manifestazione sovversiva non popolare, organizzata dal di fuori…”

FORNER: “Stai zitto!”

ALMIRANTE: “Sto dicendo esattamente la verità. Può dispiacervi, ma sto dicendo esattamente la verità. Sto dicendo la verità a nome di un partito che in quella occasione ha fatto esemplarmente il suo dovere e sto dicendo la verità a nome di un partito (anticipo, dolorosamente, quello che stavo per dire) che ha avuto in Genova uno dei suoi giovanissimi martiri, Ugo Venturini, il quale è stato fatto fuori a pietrate accanto a me, per salvarmi la vita. Erano pietrate che erano destinate al mio cranio, e che purtroppo sono arrivate al giovane cranio di Ugo Venturini. Dopo i fatti del 1960, per la prima volta tornavo a Genova per tenere una manifestazione; trovai il solito servizio di disordine, trovai forze dell’ordine che purtroppo avevano avuto l’ordine di consentire il disordine. La pelle ce l’ha rimessa un ragazzo di trentatré anni, Ugo Venturini. Ci permettete di ricordare i nostri morti, ce lo permettete? Perché lo stiamo facendo senza nessuna faziosità, con enorme dolore. Vorrei non pensarci più, vorrei dimenticarmene. Non mi aspettavo che il Presidente del Consiglio parlasse di quel periodo in tono autoesaltativo, perché la fine dell’onorevole Tambroni, la fine anche fisica dell’onorevole Tambroni fu determinata dalla pugnalata alle spalle che il suo partito gli diede dopo che egli lo aveva servito, e dopo che aveva concordato i nostri voti in questo Parlamento senza alcuna trattativa segreta o riservata, senza alcuna contropartita; unico esempio, il nostro, di partito tradizionalmente all’opposizione che dà il proprio voto gratuitamente: nessuno tra voi, né di sinistra, né di centro ha potuto mai far polemica con noi a questo riguardo. Siamo stati i soli a conferire il voto di fiducia a uomini di Governo come Pella, come Tambroni, come Zoli, come Segni, senza nulla richiedere, dando atto del loro galantomismo e del loro disinteresse, e dando essi atto a noi del nostro galantomismo e del nostro disinteresse. Molto male ha fatto dunque lei a ricordare il 1960, onorevole Presidente del Consiglio, perché io le debbo ricordare il suo discorso del 5 agosto 1960, quando ella beneficiò della caduta del Governo Tambroni e diventò presidente del Consiglio. In quel discorso (onorevole Presidente del Consiglio, non si offenda), che io giudico sciagurato, lei ha giustificato coloro che a Genova avevano mandato all’ospedale in un pomeriggio, il tragico pomeriggio dell’anteprima del nostro congresso, che poi non si potè tenere, 150 tra agenti di polizia e carabinieri. Queste sono verità che furono manifestate dalla cronaca di tutti i giornali, nessuno escluso (anche se, naturalmente, i giornali di sinistra davano le loro versioni, e le loro motivazioni). Nessuna reazione fisica e violenta da parte nostra. Io restai con gli altri dirigenti a Genova finché tutto non fu finito; me ne tornai a casa serenamente e tranquillamente; presentammo in Parlamento le nostre interrogazioni e le nostre interpellanze per condannare quello che era avvenuto. Nessuno fra di voi prese le parti non del Movimento Sociale Italiano, ma degli appartenenti alle forze dell’ordine, dei carabinieri, degli agenti di polizia che avevano difeso non noi, ma l’ordine pubblico, prima ancora che potesse cominciare il congresso che poi non si tenne. Impariamo dunque a conoscerci, onorevole Fanfani, dopo tanti anni.

Noi non accettiamo provocazioni di questo genere; ed io non posso far altro che esprimere la riprovazione di tutto il Movimento sociale italiano e mia personale per questo tentativo di agganciamento a sinistra. Ma non ci si aggancia a sinistra quando a sinistra si ha ancora il coraggio di difendere i teppisti che da sinistra vennero contro di noi, e soprattutto contro le forze dell’ordine, in Genova. Non ci si aggancia, con questi sistemi, in nessuna direzione. Noi non chiederemo mai venia per peccati dello stesso genere che possiamo aver commesso, ed io mi auguro che non ne commettiamo mai. Posso anche arrivare a dire: «Dimentichiamoci di quello che è stato perpetrato contro di noi». Ma che un Presidente del Consiglio come lei, con la sua anzianità di servizio, con la sua esperienza, citi Genova 1960 come la culla della democrazia questo no, questo è semplicemente vergognoso… perché Genova 1960 fu una vergogna per tutti. Ci tenevo tanto dirlo, in termini di pace, non in termini di provocazione o di vendetta, perché non si dirà che un discorso parlamentare, in questo clima, possa essere concepito e considerato come un discorso di vendetta. Però cominciamo male, signor Presidente, se si pensa di dover barattare valori come quelli della vita umana e dell’ordine pubblico e della sicurezza dello Stato. Non si baratta lo Stato con la fazione, signor Presidente del Consiglio. Una volta lei queste cose le insegnava, ora le ha dimenticate. Riprenda ad insegnare a se stesso quanto ha dimenticato di aver insegnato ai giovani italiani che venivano ad ascoltare le sue lezioni perché pensavano che fossero scuole di vita e non soltanto di vera o presunta sapienza.”

FANFANI: “Mi pare che lei abbia confuso, anzi che abbia parlato di avvenimenti anteriori alla formazione del Governo.”

ALMIRANTE: “Ho parlato di avvenimenti determinanti per la formazione del Governo.”

FANFANI: “Il Governo non si formò sulle valutazioni di quanto accaduto a Genova, ma per evitare una situazione politica molto delicata.”

ALMIRANTE: “Chi ha promosso quella situazione?”

FANFANI: “Non io.”

ALMIRANTE: “Ah! Non lei!”

PRESIDENTE: “La prego, onorevole Almirante.”

ALMIRANTE: “Mi permetta di rispondere garbatamente. Il Presidente del Consiglio che fu allora rovesciato era democristiano ed era un democristiano per bene; un democristiano al quale non sono stati addebitati scandali, quali sono stati più tardi addebitati ad altri. Questo lo si vorrà riconoscere. Tambroni fu pugnalato alla schiena.”

FANFANI: “Non credo che la Democrazia Cristiana lo abbia sollevato dai suoi incarichi per le ragioni che adesso lei suppone. Credo che lo abbia fatto in vista di una situazione divenuta insostenibile.”

ALMIRANTE: “Divenuta insostenibile perché non si ebbe il coraggio di difendere lo Stato. Non avendo il coraggio di farlo si inventò (lei lo sa benissimo, senatore Fanfani; sa a chi mi riferisco, e che non mi riferisco a lei in questo momento) un presunto golpismo, tra virgolette, da destra, per difendere i teppisti che avevano aggredito le forze dell’ordine; non certamente i comunisti e i socialisti, ma le forze dell’ordine. Questo è bene non dimenticarlo, ed io lo ricordo in questo momento non soltanto per rispondere a quello che lei, senatore Fanfani, ha detto ieri e poteva guardarsi dal dire, ma anche e soprattutto perché siamo tutti quanti, a cominciare da lei, preoccupati per quello che può accadere in Italia. Preoccupati per le spinte eversive o sovversive che possono essere motivate o giustificate dal disordine delle istituzioni. Noi ce ne preoccupiamo, e quando sentiamo un Presidente del Consiglio che ha il dovere di tutelare l’ordine pubblico e di guardare allo Stato; quando sentiamo un uomo come lei, della sua anzianità di servizio, della sua capacità, della sua cultura che ricorda, celebrandolo, il 5 agosto 1960, giorno in cui ella si presentò come nuovo Presidente del Consiglio dopo Tambroni, ce ne preoccupiamo ancora di più. Ricorda quanto disse in quella occasione? lo non l’ho dimenticato mai, non per spirito di vendetta, ma perché lei disse che i cittadini che a Genova avevano determinato quelle tali manifestazioni erano «cittadini democratici che difendevano come potevano e come sapevano l’ordine pubblico». I cittadini democratici avevano difeso l’ordine pubblico mandando all’ospedale i carabinieri e i soldati in nostra assenza; noi non eravamo arrivati ancora a Genova e già 150 carabinieri ed agenti dell’ordine erano finiti all’ospedale. Lei pensa di poter difendere quegli atteggiamenti? Pensa di poterli riesumare? Quella Genova è lontana, non sono più concepibili in Italia avvenimenti e provocazioni di quel genere.”

FANFANI: “Ieri non ho inteso ritornare sui fatti di Genova. Ho esaltato quanto dal momento della costituzione di quel Governo si fece per riportare ordine, tranquillità ed ampia collaborazione economica nella vita pubblica italiana.”

ALMlRANTE: “E per aprire a sinistra, cosa che lei fece in quel momento. Difatti, le «convergenze parallele» furono inventate in quel momento ed il Partito socialista, a seguito della cacciata di Tambroni, potè entrare nella maggioranza governativa, con prospettive a sinistra che, da allora in poi, hanno segnato il passo di tutta o quasi la classe dirigente della Democrazia cristiana. Sono stati, quindi, i teppisti di Genova che hanno lavorato contro lo Stato italiano con il concorso e la docilità… “

BUBBICO: “… A ripristinare l’ordine e la pace sociale.”

ALMlRANTE: “Comunque, osservo con piacere che, quando dico i «teppisti» di Genova e non i «parlamentari» di Genova, i parlamentari della sinistra e dell’estrema sinistra reagiscono; quindi, siete stati allora con i teppisti e continuate nel ricordo ad essere ancora con i teppisti.”

ZOPPETTI: “Assassino!”

ALMlRANTE: “E allora, onorevole Fanfani, lasciamo stare, non ne parliamo più; e vorrei davvero che non se ne parlasse più: ognuno ha i suoi ricordi, ognuno può avere le sue colpe e le sue responsabilità. Riprendiamo il discorso a proposito dell’attualità e a proposito (tengo a chiarire anche questo punto) dell’atteggiamento del Movimento Sociale Italiano-Destra Nazionale e dei suoi parlamentari in tema di consultazioni referendarie e di referendum. Poiché siamo stati inclusi nella schiera variopinta degli antireferendari, desidero chiarire alcune cose ai colleghi che abbiano la bontà di ascoltarmi serenamente. Non soltanto noi non siamo stati e non siamo antireferendari, ma al contrario sono quarant’anni che proponiamo che quella norma della Costituzione della Repubblica italiana venga modificata e integrata. Infatti (cosa che molti colleghi sembrano avere dimenticato) la Costituzione della Repubblica concepisce e attua il referendum soltanto come referendum abrogativo. In questi ultimi giorni, data l’ignoranza (dal verbo ignorare) di tanti colleghi e di tanti giornalisti (non se ne offenda la sala stampa), si è parlato perfino di un possibile referendum consultivo; e se ne è parlato, badate bene, da una persona pre parata, colta e politicamente espertissima come l’onorevole Andreotti. Sono rimasto mortificato per lui, accorgendomi che l’onorevole Andreotti, che sa tutto di tutto (e lo dico senza alcuna ironia), si è dimenticato che la Costituzione prevede esclusivamente il referendum abrogativo. E allora attuare i referendum significa abrogare, significa cancellare, non significa modificare. Sicché l’istituto del referendum, così come esso è, non elimina affatto l’intervento del Governo e del Parlamento; anzi, presuppone il necessario intervento di questi due organi per sostituire le norme eventualmente cancellate dalla consultazione referendaria con altre norme che siano in linea con quanto i referendari hanno ritenuto di chiedere. Quindi, il referendum abrogativo non risolve i problemi. Quanto poi ai referendum che sono in atto, sia quello concernente i temi della giustizia sia quello sul nucleare, una volta tanto voglio dare a me stesso e al mio gruppo la soddisfazione di appropriarci del sapere di Norberto Bobbio. Ogni giorno ci sentiamo rimproverare perché non siamo capaci di apprezzare debitamente Norberto Bobbio; ogni giorno qualcuno ci insegna, dall’alto di democratici settori e banchi, che bisogna rispettare il parere di Norberto Bobbio; adesso che Norberto Bobbio ha scritto un ottimo articolo di fondo su La Stampa di Torino, qualche giorno fa, ne voglio leggere qui alcuni dei passi più interessanti. Parla Norberto Bobbio, quindi attenzione, deferenza, rispetto: «Il referendum non è buono in se stesso, in quanto tale, unicamente perché fa partecipare la gente in prima persona ad una decisione che la riguarda. La sua maggiore o minore utilità dipende dall’oggetto sul quale i cittadini sono chiamati ad esprimere la loro opinione: si possono far votare per prendere decisioni importanti o insignificanti, che possono avere effetti duraturi nella vita del paese o non averne nessuno». Ancora Norberto Bobbio: «Il referendum non è fine a se stesso, è un mezzo per raggiungere un certo fine; ogni partito accetta un referendum e ne rifiuta un altro secondo il giudizio che dà sul fine». Sempre Norberto Bobbio: «Dei dieci referendum che si sono svolti finora in Italia» » attenzione, colleghi -«nessuno ha superato la prova della maggioranza dei voti favorevoli, il che ha avuto questo conseguenza: tanto rumore per nulla». Se lo dicesse Almirante, voi fareste rumore per qualche cosa; in questo caso, però, Norberto Bobbio mi insegna: tanto rumore per nulla, cioè non si è ottenuto nulla malgrado dieci referendum siano stati celebrati sui più svariati argomenti. E ancora Norberto Bobbio: «Quanti sanno davvero che il solo effetto del grande sommovimento sarebbe quello di abrogare leggi esistenti, dopo di che il problema sollevato dal voto popolare ritornerebbe al Parlamento per una soluzione definitiva?». Il punto interrogativo è di Norberto Bobbio. Giorgio Almirante si limita ad una sola osservazione, relativa ai referendum indetti e, tanto per essere chiari, a quello sul nucleare: se, per avventura, il referendum sul nucleare si celebrerà, se per avventura vi sarà il numero sufficiente di voti, se per avventura vinceranno i sostenitori della causa referendaria a proposito di tutti i punti sollevati, le quattro centrali esistenti in Italia resteranno alloro posto, nessuna misura di sicurezza per la vita dei cittadini italiani verrà presa, perché il referendum non tratta questo punto, non si preoccupa della sicurezza, non si preoccupa neppure del nucleare sotto il profilo economico, trattando problemi che inseriscono genericamente al grande tema del nucleare ma non affrontano i due punti essenziali, quello della sicurezza della vita per il cittadino italiano delle zone limitrofe, o comunque non troppo lontane, e quello del rapporto tra il nucleare e lo sviluppo economico e il potenziamento dell’economia nazionale. Sicché si sta facendo (lo dice Norberto Bobbio ed io lo sottoscrivo) tanto rumore per nulla: i capi referendari sono in perfetta malafede, e lo dice un segretario di partito che al referendum è favorevole, perché noi siamo favorevoli agli istituti di democrazia diretta: se si potrà realizzare la soluzione prospettata dall’onorevole Fanfani, se cioè si potrà, magari con un decreto-legge (anche se francamente io ne dubito, ma non pretendo assolutamente di sovrapporre la mia scarsa conoscenza delle cose, signor Presidente, alla sua più completa conoscenza) o con una leggina, modificare l’articolo 34 della legge del 1970 e stabilire scadenze adeguate per celebrare i referendum senza incidere sul necessario scioglimento delle Camere e sulle elezioni politiche anticipate, posso garantire che il Movimento sociale italiano non farà nessuna opposizione e sosterrà bravamente il sì o il no sui vari punti referendari, a seconda di quelli che saranno i nostri punti di vista. E i nostri punti di vista non sono troppo lontani da quelli di coloro che chiedono un certo riordino sul tema della giustizia e anche certe maggiori cautele a proposito del nucleare. Ciò chiarito, onorevole Presidente del Consiglio, posso arrivare rapidamente alle conclusioni. Sul piano costituzionale, signor Presidente del Consiglio, devo ricordare a me stesso (poiché i diretti interessati se lo sono dimenticato, soprattutto l’onorevole Craxi e l’onorevole De Mita ) che il più grosso strappo alla Costituzione è stato rappresentato dalla famosa, o famigerata, intesa del 23 luglio dell’anno scorso, l’intesa denominata «staffetta», che lei ha citato garbatamente e penso con spiritosa ironia. Se vi è stato uno strappo alla Costituzione della Repubblica italiana, se si è spavaldamente sorvolato sui poteri, sulle attribuzioni, sui diritti e sui doveri del Presidente della Repubblica in quanto tale; sui poteri, sui doveri, sui pronunciamenti del Parlamento italiano in quanto tale; sugli stessi doveri e poteri dei segretari di partito interessati (parlo di quello della DC e di quello del PSI), l’occasione in cui si è violata palesemente la Costituzione, in cui si è venuti meno ad ogni norma di correttezza e di buona educazione, è stata proprio quella della «staffetta». Ed è stato proprio lì che si è rivelata anche la pochezza morale (parlo della moralità politica, naturalmente) dei cosiddetti protagonisti, i quali hanno cercato di ingannarsi a vicenda. Tutto il resto lo tralascio, sia per brevità sia perché veramente mi vergognerei di insistere su questa avvilente tematica.

Non esiste una maggioranza, onorevole Presidente del Consiglio. Lei non ha ritenuto opportuno chiedere il voto di fiducia, ma penso che dovrà farlo. Penso comunque che non potrà evitare di chiederlo perché la Costituzione, da questo punto di vista, non teme contraddizioni. Ritengo inoltre che ella si sia trovato in grande imbarazzo nella scelta tra il chiedere o il non chiedere il voto di fiducia, perché un Presidente del Consiglio che sa di non avere una maggioranza e di essere destinato alla bocciatura parlamentare si trova indubbiamente in difficoltà nel momento in cui deve concludere il suo discorso. D’altra parte ella ha avuto un precedente illustre (al solito) nell’onorevole Craxi, il quale è venuto in quest’aula qualche settimana fa per esaltare il suo buon governo ed ha concluso dicendo: ora vado al Senato per svolgere la stessa comunicazione, e si è poi dimesso ingloriosamente senza poter neppure giustificare dinanzi alla sua coscienza le ragioni per le quali un Governo tanto bravo, tanto capace, tanto riformista, tanto riformatore e tanto benemerito (a sentir lui) come il suo doveva poi fare le valigie! Signor Presidente del Consiglio, ho rilevato (spero di essermi sbagliato) un tentativo da parte sua per far riaffiorare il compromesso storico e la relativa tattica. Non dico un’intesa tra lei, con le sue dichiarazioni di ieri, e il Partito Comunista, con quello che è stato detto e pubblicato dai giornali in queste ultime ore (mi riferisco in particolare alle dichiarazioni dell’onorevole Occhetto, che è uno dei massimi responsabili del Partito Comunista e ha continuato a parlare di Governo referendario). Non vorrei, signor Presidente del Consiglio, che ci trovassimo di fronte ad una delle tante operazioni di trasformismo alle quali siamo purtroppo abituati, ormai da tanti anni a questa parte. Auguro, signor Presidente del Consiglio, a coloro che hanno a cuore le sorti della Repubblica italiana, che hanno a cuore il prestigio stesso delle istituzioni e quelle del nostro popolo nei sempre più difficili rapporti con l’Europa e il resto del mondo, auguro anche a tutti quanti voi, che la coscienza vi assista per evitare che la Repubblica italiana affronti situazioni di estremo pericolo. Esiste una sola possibilità: giungere rapidamente alle elezioni politiche anticipate e assumere l’impegno, tutti noi parlamentari, di svolgere una campagna elettorale in positivo, che ci consenta di poter dire al popolo italiano, nel rispetto delle opinioni altrui, nel mantenimento fermo e consapevole delle nostre posizioni: avrete un nuovo Parlamento, un Parlamento capace di dar vita ad una specie di Costituente che riporti ordine nelle istituzioni, che restituisca fiducia nelle istituzioni stesse al popolo italiano, che consenta alle istituzioni di funzionare nell’interesse del popolo! Questo è il nostro obiettivo disinteressato, onorevole Fanfani. Le parla un parlamentare vecchio, o anziano, quasi quanto lei o come lei. Ovviamente, non ho alcuna aspirazione di potere. Noi non abbiamo alcuna aspirazione di potere, e siamo in grado di raccogliere consensi sempre più vasti anche dicendo ai nostri elettori che non li potremo difendere da posizioni di potere, ma che li difenderemo da posizioni di opposizione. Da quarant’anni a questa parte questo è il nostro atteggiamento, questo è il nostro comportamento in Parlamento e nel Paese, e continuerà ad esserlo soprattutto nella ormai inevitabile campagna elettorale.

Buona fortuna agli avversari; noi abbiamo buona coscienza, il che è più importante.”