La scapigliatura di un quattordicenne

La scapigliatura di un quattordicenne

Capelli neri, fitti, lunghi. All’epoca un ragazzo con queste caratteristiche, era molto facile di trovarsi bollato dai “matusa” del momento come “capellone”. Categoria giovanile guardata con sospetto. Portatrice di sommovimenti della società strutturali e profonde. Un mondo, che come era stato trovato, alle nuove generazioni stava stretto. Parleremo di fatti accaduti a “68 già avvenuto. Esploso, con la prepotente carica d’innovazione, e il pesante fardello di estremizzazioni e contraddizioni. Nodi al giorno d’oggi non ancora pienamente sciolti. Dalla lettura di quella fase, ancora non univoca. In quell’atmosfera calda, per non dire bollente di tensioni, che attraversavano la società, dal mondo del lavoro a quello della scuola e dell’Università, il poco più che ragazzino in oggetto cominciò a cercare un porto dove poter far attraccare il suo veliero di entusiasmi. Il quale come naturale che fosse era carico di progetti e aspettative. Il primo elemento da seguire, per trovare un giusto porto d’attracco, secondo il suo acerbo ma profondo sentire era, trovare luoghi ove ci fosse la bandiera. Il Tricolore. Quello costituiva il parametro primo, fondamentale. Punto cardinale, per poter cogliere al meglio i molteplici allettamenti e sollecitazioni di quell’età. Per il giovane, non rappresentava certo, solo un simbolo attorno al quale raccogliersi in occasione delle partite della Nazionale di calcio. La bandiera, per lui era qualcosa di più, molto di più. Un simbolo fortemente evocativo riassuntivo dei valori che aveva respirato in casa. Riferimenti, che con accenti diversi, aleggiavano da, generazioni nella famiglia. Confesso: ebbene quel quattordicenne ero io. Con la chioma fluente dell’epoca, che ben poco aveva da invidiare ai capelloni tutti d’un pezzo.  Quella è l’età, nella quale si cominciano a effettuare le prime svolte necessarie, affrontando i crocevia della vita. Cominciai così a frequentare i corsi delle scuole superiori. Passaggio, articolato, complesso. Per tutte le novità, che esso comportava dalla conoscenza dei nuovi compagni di scuola, alla dimensione della scuola stessa, che mi sembrava gigantesca. Nella quale inizialmente avevo timore di potermici perdere. Tutto era all’insegna dell’assoluta novità. La vita, è densa di misteri, casualità, coincidenze, destino. Nell’alveo di queste possibilità è contenuto il fatto che fui iscritto all’Istituto Tecnico Commerciale Duca degli Abbruzzi. Il primo anno di frequenza era il “71- “72. Il fatto, o il fato volle che sulla strada ove era ubicata la mia scuola, in Via Palestro si affacciasse una traversa. Cosa assolutamente consueta. Questa strada, che non era poi molto grande aveva da pochissimo acquistato una peculiarità. Specificità che la renderà nota in certi ambienti a livello nazionale. Nel Settembre del 1971 vi era stata inaugurata la sezione del Fronte della Gioventù. Insieme di circostanze, che segnarono la mia vita. La neocostituita formazione politica del mondo giovanile della Destra gravitante attorno al MSI. Come simbolo aveva una torcia fiammeggiante dai colori del vessillo nazionale. La strada dove era stata inaugurata la sede era Via Sommacampagna. Avevo trovato, dove andare a cercare il mio Tricolore. Così un giorno d’Ottobre di quell’anno, uscito da scuola andai a Sommacampagna. Con un po’ di imbarazzo e timidezza, suonai al campanello della porta. Accesso che nel giro di pochi anni diventò, da semplice porta a porta blindata. Reiterati atti di vandalismo e danneggiamenti, suggerirono alla dirigenza, di agire in tal senso. Luogo, la sede, fin dalle prime battute della sua esistenza, oggetto delle “attenzioni” degli avversari. Una volta, all’interno, mi confrontai, con una percepibile un’atmosfera che definirei elettrica. I presenti erano tutti indaffaratissimi, chi a fare rotoli di manifesti, chi a preparare la colla e chi trafficava intorno al ciclostile, nel tentativo di stampare al meglio dei volantini. Tutte attività, fino a quel momento a me poco conosciute. Diventeranno il mio pane quotidiano. Cominciando dallo scomodissimo portare il secchio della colla. Scomodità che era dato dal peso stesso del secchio, e dagli inevitabili schizzi di colla che facevano dei propri capi d’abbigliamento, ottimi candidati a lavaggi accurati in tintoria. Con estrema rapidità, quale segno di riconoscimento e inserimento in quel mondo dalle mille sfaccettature, cominciai a chiamare con linguaggio quasi da iniziato, quella sezione semplicemente Somma. Come è attualmente chiamata ancora oggi dai militanti. “Devo andare a Somma”, “La riunione è a Somma alle 16.00” “Il concentramento per il corteo parte da Somma”. Cominciai a frequentare. Ebbi modo così di conoscere, svariate persone, primo fra tutti “l’anima del Fronte” ossia Teodoro Buontempo, che l’aveva pensato, progettato e fondato. attivisti e dirigenti quali Mario Codogni, Guido Morice, Sergio Mariani, solo per citarne alcuni tra i maggiormente significativi di quel periodo. Un paio d’anni dopo, in una delle tante riunioni, ebbi modo di conoscere come coordinatore dei fiduciari d’Istituto Gianfranco Fini. Ben presto Somma, diventò per me, come per tutti più di una sede. Molto di più. Una concreta possibilità di alternativa, ai vari conformismi di pensiero e comportamentali. Somma, cominciò a operare nel pieno della “furia ideologica” dai quali erano contraddistinti i tempi. Quasi immediatamente compresi che bisognava difenderla con le unghie e con i denti. Attività che nei fatti eravamo quotidianamente chiamati a fare. Questo comportava una presenza e mobilitazione attivistica costante e di tutto rilievo. Nel giro di breve compresi quale era la posta in gioco. La smodata aggressività nei confronti di Somma e dei suoi frequentatori da parte dei gruppi di sinistra, nelle varie articolazioni mirava a d’impedirci qualsiasi spazio “di agibilità politica” come si diceva un tempo.  A quelli come noi volevano negare tutto. Il diritto di parola, ‘espressione, la libertà. Nei casi più drammatici come tragicamente quegli anni ci insegnarono l’esistenza stessa. Si viveva in costante stato d’allerta. Nonostante queste tensioni fra noi c’era grande affiatamento cementato anche dalle situazioni di pericolo oggettivo alle quali ci esponevamo. Un senso goliardico era fortemente presente. Fioccavano i soprannomi che ci davamo l’un l’altro, ne ricordo alcuni Geppo, Grissino, er Braciola, Igor, Tortelin, Folgorino, Lupomanno, e molti altri ancora. Per quanto mi riguarda il soprannome fu er Chiacchiera, che si riferiva, credo a mie capacità nell’esporre con una buona “parlantina” gli argomenti. Se ben ricordo, me lo affibbiò Maurizio Gasparri, con il quale, con lui Segretario, ero entrato nella rinnovata Giunta di Roma e Provincia del F.d.G. Nel frattempo il confronto politico diventava sempre più incattivito. Sempre più aspro. Quel vulcano d’iniziative, e di lungimiranza che era Teodoro Buontempo, per tutti noi Teo, ancora una volta spiazzò tutti, amici, avversari, i vertici del Partito. Fondò e rese operativa, in una parte dei locali di Somma una emittente radiofonica. Iniziativa, semplicemente impensabile in quel contesto. Radio Alternativa, la quale cominciò a tramettere dal Settembre del 1976. Teo, aveva prefigurato nuove possibilità di sviluppo, e nuovi percorsi per la militanza. Radio Alternativa, diventò un altro spazio del nostro cuore. Un mondo, che con altre modalità, certamente più efficaci, manteneva e amplificava il suo diritto di parola. L’esperienza di Somma, mi ha insegnato le cose vere della vita: l’abnegazione nel perseguire la realizzazione di un progetto, la faccia di una politica onesta, pulita, scevra da interessi personali, filamenti di una comunità umana che nonostante il passare di 50 anni non si sono spezzati. Ma la forza attrattiva che ancora esercita quel luogo, ancora oggi desta in me stupore. Prendendo completamente in contropiede la madre e me, nostro figlio, senza avere mai subito alcuna pressione, da parte nostra in tal senso, un bel giorno ci ha dato un annuncio. “Sono andato a iscrivermi a Gioventù Nazionale” “Dove?” chiedemmo all’unisono completamente sorpresi. “In Via Sommacampagna”. Questo avveniva quando Goffredo Maria, era nel vortice dei suoi sedici anni. Da quel momento, è tutto un risuonare per casa nostra di frasi del tipo: “Devo andare a Somma”, “Ho riunione a Somma”, “Mi chiamano da Somma”. Di Somma in Somma lascio a voi fare il totale.

 

Massimo Pedroni

Afghanistan addio …….

E’ finita la guerra più lunga nella nostra storia, venti anni,  e dobbiamo impegnarci  a difendere gli Usa da nuove minacce”.  Questa la frase con cui il presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, ha commentato la definitiva chiusura delle operazioni in Afghanistan e l’evacuazione dell’ultimo soldato americano.  Detta così sembra il “Bollettino  della  Vittoria” del generale  Diaz  alla fine della prima guerra mondiale nel 1918.  “L’operazione di evacuazione da  Kabul è stata uno straordinario successo”.

Pensare che il Presidente degli Stati Uniti consideri  uno straordinario successo una indegna  fuga dopo venti anni di guerra senza vergognarsi  fa accapponare la pelle.  L’aeroporto, controllato dai più prestigiosi reparti del suo esercito,  è stato il luogo in cui l’Isis,  con un attentato kamikaze,  ha causato circa duecento morti , fra cui tredici soldati Usa.  Oltretutto sono numerose le testimonianze di chi ha dichiarato che , oltre all’esplosione,  sicuramente  causa di numerosi morti,  a sparare sulla folla,  accalcata per fuggire, sono stati militari Usa e turchi. Non solo, membri del   Pentagono hanno fornito la notizia dell’ uccisione  con un drone  di un militante dell’Isis  come risposta militare,   ma è stato subito aggiunto che la persona in questione non aveva alcun rapporto con l’attentato all’aeroporto di Kabul.   E pensare che il capo della Cia era stato alcuni giorni prima in Afghanistan per trattare  la ritirata totale e, come risultato del colloquio,  aveva  ottenuto l’informazione del  pericolo di attentati da parte dell’Isis proprio all’aeroporto.   Se questo è stato il risultato degli avvertimenti avuti  Biden, come minimo , deve agire per  un rapido cambio dei vertici dei servizi segreti che,  nonostante un avviso cos’ preciso, non sono riusciti  a bloccare niente e nessuno. Anzi, qualche giorno dopo l’attentato,  avvisati del possibile lancio di razzi da parte sempre di terroristi dell’Isis,  hanno  dato il via ad una azione difensiva  in cui sono stati uccise nove persone, peccato che sei di queste erano bambini ed una delle piccole vittime non arrivava ai due anni.  Quando si dice stroncare il terrorismo  dalla radice e prima che si sviluppi troppo.

Immagino la vergogna provata da quei soldati imbarcati per tornare in patria accompagnati  dalle raffiche di mitra in aria da parte dei talebani che festeggiavano la vittoria e negli occhi la sfilata di armamenti lasciati a terra nelle mani del nemico.  Non basta affermare che tutte le armi erano state “smilitarizzate” e che gli obiettivi, per cui ad ottobre del 2001 era iniziata questa guerra per  “esportare la democrazia”, erano stati raggiunti.   Quell’anno i talebani controllavano piccole zone del paese e avevano  dalla loro parte una esigua minoranza della popolazione, adesso governano l’intera nazione, fatta eccezione del Panshir dove, come aveva gia fatto suo padre prima di essere ucciso in un attentato compiuto da due tunisini  per conto di elementi vicini ad Al Qaida, combatte il figlio di Massud.    Se il Vietnam e la fuga da Saigon è stata una delle pagine più oscure per la potenza militare statunitense ora  la si può considerare una strepitosa vittoria rispetto al disastro di oggi.  Sul terreno sono stati lasciati in mano ai Mullah 73 velivoli, fra aerei ed elicotteri, 70 veicoli tattici corazzati  Harp del costo di circa un milione di dollari l’uno, carri armati, autoblindo  ed addirittura il sistema di difesa Cram in grado di  intercettare razzi,  proiettili di artiglieria e colpi di mortaio, quello stesso che avrebbe bloccato gli ultimi razzi lanciati dall’Isis. Secondo  il capo del comando centrale usa, gen. Kennet  Mc Kenzie,  non vi sono problemi  perché sono mezzi “resi inservibili” .   Ma cosa volete che sia, dal punto di vista economico, la perdita dell’armamento di un intero esercito quando  in questi venti anni gli Stati Uniti hanno bruciato in questa fantastica operazione la bellezza di 2313 miliardi di dollari . Se parliamo invece dei vantaggi tratti dal popolo afgano in questo sforzo compiuto dalle potenze occidentali per garantirgli la “democrazia”,  dobbiamo contare i 2,7 milioni di civili fuggiti all’estero, di cui 1,4 milioni  in Pakistan e 780 mila  in Iran, oltre all’Europa e tutte le  altre nazioni più vicine ed i quattro milioni che hanno compiuto  una emigrazione all’interno delle varie province del Paese. In totale  circa 7 milioni di persone hanno cercato scampo alla guerra su un totale di 38 milioni di abitanti.  Un ottimo risultato per poi lasciarli tutti in mano ai talebani.

In un suo recente intervento il “grande vecchio” della politica americana,  il novantottenne ex segretario di Stato Henry Kissinger, non ha lesinato le critiche a chi aveva diretto le operazioni militari in questi anni: Ne riportiamo alcuni passi.  “ Gli Stati Uniti si sono rivelati inadeguati  nelle azioni di contrasto agli insorti a causa della loro incapacità nel definire quale fossero gli obiettivi raggiungibili e di collegarli tra loro in modo tale da ricevere l’appoggio delle istituzioni politiche americane. Gli  obiettivi militari sono stati troppo assoluti ed irraggiungibili, quelli politici troppo astratti e sfuggevoli L’incapacità di collegarli tra di loro ha fatto si che l’America restasse invischiata in conflitti privi di termini ben definiti e ci ha portato, in patria, a perdere di vista le finalità condivise, sconfinando in un marasma di diatribe interne. Siamo sbarcati in Afghanistan sull’onda di un sostegno popolare in risposta agli attacchi terroristici di Al Qaida ma, dopo una campagna militare iniziale che ha raggiunto i suoi scopi con la massima prontezza, ci siamo imbarcati in un procedimento talmente lungo ed invasivo da alienarci le simpatie della maggioranza degli  afghani, anche di coloro che si erano opposti ai jihadisti. I talebani sono stati tenuti sotto controllo ma non eliminati, l’introduzione di forme di governo Inconsuete, d’altro canto , ha indebolito l’impegno politico ed incoraggiato la corruzione dilagante……. I presidenti  Donald Trump e Joe Biden hanno avviato trattative di pace  con i talebani che avevano giurato di sterminare una ventina di anni prima. Quei negoziati sono sfociati oggi nel ritiro incondizionato degli americani, per opera del governo Biden. Spiegarne i motivi non cancella la brutalità e soprattutto la precipitazione della decisione presa.”

Questa la lapide posta da Kissinger  su quanto compiuto  in questi anni e che non riguarda solo il prezzo economico che gli Stati Uniti hanno pagato  e che aumenterà nel tempo visto che continuerà a pesare sulle casse dello Stato l’assistenza alle migliaia e migliaia di reduci, ai parenti dei soldati morti in battaglia. Ancora una volta a pagare più di tutti sono stati comunque gli afghani che, oltre ai quasi cinquantamila morti civili, devono  contare 66 mila soldati o poliziotti uccisi   52 mila combattenti dell’armata talebana rimatsi sul campo. Per gli Stati Uniti le vittime sono state 2461 ma a questi si vanno ad aggiungere 3846 contractor statunitensi, un dato che il Pentagono preferisce non fornire e comunque non commentare perché dimostra  che a compiere le azioni più pericolose erano persone non regolarmente inquadrate fra le forze ufficiali  dell’esercito.

Anche l’Italia che, come notoriamente tutti sanno, ha da sempre grandissimi interessi e relazioni con quanto avviene da quelle parti, ha dovuto pagare il suo contributo di sangue: 54 soldati uccisi e 723 i feriti.  Oltre alle vite umane perse per una guerra inutile e nella quale non avevamo alcun motivo di intervenire, sono stati spesi milioni e milioni di euro per finanziare  le operazioni militari e la costruzione di scuole, ospedali da campo  e  strade che verranno utilizzate dai talebani. Comunque possiamo essere  soddisfatti, come ha affermato il ministro degli esteri Di Maio,  perchè abbiamo dimostrato come in pochi giorni  siamo stati capaci di trasportare cinquemila profughi afghani  di cui duemila soltanto nella tendopoli costruita ad Avezzano. Chissà se avevano il green pass per salire sugli aerei e se al loro arrivo a Roma sono stati controllati dal punto di vista sanitario. Fortunatamente per le donne non vi sono assolutamente i problemi legati all’uso delle mascherine:  sono abituate al burka.

Roberto Rosseti

“Montanari chieda scusa sulle Foibe”

RIPORTIAMO LA DICHIARAZIONE DELLO STORICO  MARINO MICICH SULLE VERGOGNOSE PAROLE DI TOMASO MONTANARI

 

“Montanari chieda scusa sulle Foibe”

“Sono affermazioni politiche e ideologiche quelle di Montanari. Chieda scusa pubblicamente alla popolazione giuliano-dalmata e alle vittime. Si occupi di arte e non di storia”, è il parere – all’Andkronos – di Marino Micich, direttore dell’Archivio-Museo storico di Fiume, commentando le dichiarazioni sulle Foibe di Tommaso Montanari, Rettore dell’Università per Stranieri di Siena.

“Il suo è un revisionismo ideologico tipico del vecchio Pci. C’è purtroppo un ritorno alle vecchie posizioni: la sua è la stessa tesi degli storici jugoslavi di Tito. Io conosco il croato e ho letto molti documenti: hanno la stessa visione. Quando poi dice che il giorno del ricordo delle Foibe è un giorno delle destre sbaglia perché non ricorda che quasi tutto il Parlamento votò la sua approvazione. Solo i Comunisti Italiani di Rizzo e Diliberto e una parte di Rifondazione votò contro. Montanari evidentemente si rifà alla loro ideologia: le sue dichiarazioni sono simili alle loro”, chiosa Micich.