Seduta del 10 gennaio 1975
Nel 1975 il regolamento della Camera consentiva i discorsi-fiume, anche in occasione dell’esame dei decreti-legge. Con decreto-legge il governo volle approvare una proposta di riforma, in pejus, della Rai-Tv. Il Msi-Dn decise ed attuò una battaglia ostruzionistica che travolse il decreto-legge. Il successo fu dovuto anche all’ampiezza degli argomenti portati a sostegno dell’opposizione al decreto. Giorgio Almirante, già segretario del partito, partecipa in prima persona a questa battaglia diretta ad impedire la legalizzazione della lottizzazione ed a consentire, quindi, il continuare della disinformazione
La battaglia contro
la lottizzazione della Rai-Tv
ALMIRANTE: “Signor Presidente, onorevoli colleghi, onorevole ministro, vi prego di non sorridere di me se, nonostante la mia lunga esperienza di quest’aula sono un veterano confesso che immaginavo diverso l’inizio di questo dibattito sulla riforma della RAI-TV. Ero giustificato nell’immaginario diverso perché non solo se ne è parlato in tante occasioni negli scorsi anni, ma se n’è parlato da parte di tutti i settori di questa Camera auspicando (di anno in anno, sia allorché la vecchia convenzione scadeva e veniva prorogata, sia, prima ancora che la convenzione scadesse, dal 1960 in poi, con discussioni ripetute appassionate e approfondite) il gran giorno in cui si sarebbe giunti alla riforma della RAI-TV. Se ne è parlato in guisa seria e impegnata sia da parte di coloro che ritenevano che la riforma dovesse essere una riforma di fondo, una ristrutturazione vera e propria, sia da parte di coloro che ritenevano che poco o nulla dovesse innovarsi ma che nondimeno si dovesse passare da una situazione provvisoria ad una situazione definitiva. Siamo giunti al gran giorno, si apre il dibattito sulla riforma della RAI-TV e l’aula è vuota. Non sono così presuntuoso da ritenere che l’aula sia vuota in questo momento perché parla il segretario del MSI- Destra nazionale, in quanto ho l’impressione che l’aula continuerà ad essere vuota o semivuota anche quando parleranno gli illustri colleghi delle altre parti politiche. Ho anche l’impressione che non soltanto l’aula continuerà ad essere vuota ma anche esternamente, in quegli ambienti giornalistici che ancora nelle scorse settimane si occupavano con tanta passione e intensità di questi problemi, si tenga a cloroformizzare, a morfinizzare usiamo una parola alla moda, e soprattutto una parola che si addice a taluni giornali come Il Messaggero di Roma a drogare la situazione di guisa che tutto scivoli e questa riforma di regime passi in un ovattato silenzio e in un largo conformismo.
Naturalmente, dico questo senza aver né l’autorità, né l’intenzione di deplorare tutti i lettori di questo Parlamento e ogni settore dell’opinione pubblica; ognuno ovviamente è padrone di assumere o di non assumere le proprie posizioni e le proprie responsabilità. Mi permetto soltanto di osservare che nel nostro paese si è fatto e qualche volta giustamente molto chiasso per l’appropriazione o per la vendita o per la cessione di qualche testata giornalistica, mentre in questo caso si tratta di cedere al regime la testata dei giornali radiotelevisivi. Altro che Corriere della sera, Il Messaggero, Il Tempo, o tutta insieme la nostra stampa: qui si tratta di una formidabile appropriazione di testate giornalistiche che influenzano la pubblica opinione. Osservo, di passaggio, che da uno dei tanti appunti che ho avuto modo di leggere nei giorni scorsi risulta che, su 20 milioni circa di ascoltatori del telegiornale delle ore venti, 12 milioni (secondo le statistiche-campione) non leggono alcun quotidiano. quindi vi sono almeno 12 milioni di italiani che come solo giornale hanno a propria disposizione il giornale televisivo delle ore venti. Ora questa testata viene ceduta; e non con i soldi di Cefis, di Agnelli o di qualche altro potentato economico, ma con i soldi del contribuente italiano. Viene ceduta, e nel momento in cui i soldi al contribuente italiano vengono estorti per questa operazione in misura maggiore che in precedenza (siamo di fronte ad una contribuzione forzosa, imposta, direi, con pessimo gusto), e il regime non spende una lira, ma incassa i leciti e gli illeciti guadagni, l’aula parlamentare rimane vuota. Così come sono assenti molti dei colleghi della stampa che, fra l’altro, sono direttamente o indirettamente interessati: taluni infatti sono dei diretti o indiretti beneficiari, ma molti altri sono direttamente o indirettamente colpiti e lesi moralmente, professionalmente e materialmente da questo atto di appropriazione indebita; eppure l’aula è vuota. E l’opinione pubblica viene indotta a tacere, a non occuparsi di questo problema o addirittura viene indotta, come, ad esempio, dal Messaggero di questa mattina, ad occuparsi di altro, visto che nei titoli di testata di questo quotidiano si parla, oltre che di quello che avviene oggi e di quanto potrebbe avvenire fra qualche giorno, quando il Presidente del Consiglio, sembra, verrebbe a porre la fiducia per stroncare o tentare di stroncare l’ostruzionismo, anche dello sciopero generale del 23 gennaio prossimo, la cui durata a Roma sarebbe raddoppiata «contro la violenza fascista».
A proposito della qual violenza fascista informo l’aula vuota, il Presidente e il cortese rappresentante del Governo, che stamane sono stato svegliato dall’ annun cio che due nostre sedi, a Roma, sono state distrutte col tritolo alle 2,30 di questa mattina. I giornali non ne hanno ancora potuto dare notizia; sembra che non vi siano vittime, ma queste sono le ultime notizie. A Roma lo dico di passaggio, perché non ho intenzione, io, di divergere o di cercare alibi, voglio parlare del tema e vi ritornerò subito, ma l’animo a questo punto è pieno di tale indignazione che mi si consenta un accenno, signor ministro, a questo episodio che le dedico quale rappresentate del Governo nella città dei fratelli Mattei, quei fratelli Mattei dei quali la televisione non ha offerto le immagini perché indubbiamente non erano telegenici nel momento in cui morivano bruciati, nella città nella quale otto nostre sedi sono state devastate, nella quale molti nostri ragazzi sono stati mandati all’ospedale (uno è ancora all’ospedale in pericolo di vita, e non lo intervistano perché non è telegenico nemmeno lui, mentre è telegenico il giovane di sinistra abbondantemente intervistato e che, grazie a Dio, lo dico con profonda soddisfazione, sta per uscire dall’ospedale), nella città dei fratelli Mattei, dicevo, non è lecito giocare, da parte di giornali «teledrogati», con la sensibilità, con la umanità, con la civiltà dei cittadini della capitale d’Italia.
Chiusa questa iniziale parentesi, di cui chiedo vivamente scusa al Presidente della Camera, e tornando al tema, sembra che questo dibattito non interessi. E io non attribuisco al nostro più che legittimo (e apertamente proclamato dal presidente del nostro gruppo) ostruzionismo, e quindi all’ostruzionismo più che legittimo degli altri settori, purché naturalmente condotto nel rispetto del regolamento, l’assenza di tanti colleghi dall’aula o il silenzio di quasi tutti i gruppi, come si è verificato ieri a proposito della risposta alle nostre pregiudiziali di costituzionalità. Anzi, se gli altri settori volessero non dico legittimare, ma mobilitare in termini politici e in termini di correttezza parlamentare il loro antiostruzionismo, essi dovrebbero cogliere l’occasione per star qui, per far sì che questo dibattito significasse qualche cosa sotto tutti i punti di vista. Soprattutto dovrebbero essere presenti e tentare di cogliere le nostre eventuali contraddizioni, i punti deboli delle nostre argomentazioni, per dimostrare che la nostra è soltanto una posizione ostruzionistica e non è una posizione corroborata da dati di fatto, da considerazioni serie, da posizioni profondamente meditate, valide nell’interesse della nazione e non certo nell’interesse esclusivo del nostro gruppo. Ma avete visto ancor ieri quello che è successo: e desidero sottolinearlo perché il mio discorso non può non partire dalle premesse di carattere costituzionale.
Beninteso, non ho la minima intenzione di ripetere e vedrete che non lo farò gli argomenti che sono stati sostenuti assai validamente, e aggiungo assai brillantemente, ieri dagli onorevoli Roberti e Guarra e dal nostro relatore onorevole Baghino. Non ho intenzione di ripeterli perché certo farei ciò in modo meno brillante, meno perspicuo soprattutto darei l’impressione di voler perdere del tempo; ma debbo cominciare di lì, perché questa è una legge di riforma, ed è una legge di riforma che attiene alle libertà costituzionali, alla Costituzione nel suo significato fondamentale. Non si può non prendere questo punto di partenza, anche perché non credo che ieri l’onorevole Bressani abbia risposto alle pregiudiziali di costituzionalità, che erano molto articolate e motivate, a nome di tutto l’«arco costituzionale», naturalmente escluso il gruppo liberale, il quale si è nobilmente comportato e al quale mi permetto di rivolgere il mio ringraziamento per quanto l’onorevole Quilleri ha sostenuto con tanta capacità. Non credo che l’onorevole Bressani abbia ieri potuto parlare anche a nome di altri gruppi: credo che egli abbia parlato soltanto a nome del gruppo della Democrazia cristiana; al massimo, posso immaginare che egli abbia potuto interpretare le tesi costituzionali del Partito repubblicano e forse quelle del Partito socialdemocratico (con ciò mi riferisco a taluni precedenti). Non penso che egli abbia potuto interpretare le tesi costituzionali ammesso che ne abbia del Partito socialista italiano, e certamente non si è potuto fare portavoce delle testi costituzionali del Partito comunista.
Il silenzio, nel dibattito di ieri, dei rappresentanti del gruppo comunista è grave e significativo, è un fatto politico e, più ancora che un fatto politico, costituisce un dato di regime. Il gruppo comunista è naturalmente padronissimo di contrastare il nostro ostruzionismo; l’onorevole Natta se io sono bene informato nella Conferenza dei capigruppo ha dichiarato che tutto ciò è perfettamente legittimo. Il gruppo comunista è padronissimo di coadiuvare la maggioranza nel portare innanzi al più presto possibile e al peggio possibile questa riforma della RAI-TV che, per i motivi che mi permetterò successivamente di enunciare, giova soprattutto al Partito comunista; ma, nel momento in cui il Partito comunista rinuncia ad avere una propria tesi sui problemi costituzionali a questo riguardo, esso rinuncia con ciò ad esprimersi su questo argomento, quando il non esprimersi su tale questione significa non pronunciarsi sulla riforma. I dati di fondo sono in questo caso dati costituzionali, e si riferiscono soprattutto alla interpretazione dell’articolo 21 della Costituzione, cioè alla interpretazione del significato di libertà di manifestazione del pensiero in un paese democratico e moderno. Nel momento in cui il Partito comunista tace a questo riguardo, esso, anche costituzionalmente, si inserisce nel regime. Io ringrazio il Partito comunista per questa sua posizione, perché essa è molto significativa e importante per l’opinione pubblica e per gli orientamenti di quelle masse lavoratrici di cui il Partito comunista si ritiene il rappresentante; ed è importante altresì che tale partito, forse per la prima volta, combatta una battaglia di retroguardia, mentre noi combattiamo una battaglia di avanguardia. Infatti, questa è la realtà: ci troviamo di fronte a due interpretazioni del dettato costituzionale. Una è l’interpretazione affermata coraggiosamente, anche se con molti ritardi, con qualche esitazione ed anche con alcuni recenti errori, dalla Corte costituzionale; l’altra è l’interpretazione del regime, che è per il monopolio, anzi lo documenterò è per un monopolio possibilmente inteso in senso più restrittivo di quanto sia stato fino ad ora e di quello che si dovrebbe instaurare. L’interpretazione della Corte costituzionale è contro il monopolio o, più esattamente, per il riconoscimento e l’accettazione del monopolio obtorto collo, per uno stato di necessità e per motivi tecnici (come ha ben spiegato l’onorevole Roberti) dovuti più ad una mancanza di informazione e di approfondimento dei motivi stessi, che ad una loro reale esistenza. Comunque sia, la Corte costituzionale è per l’accettazione obtorto collo, come stato di necessità, di un monopolio, limitato per altro soltanto alla televisione via etere ed escluso per la televisione via cavo e per l’importantissimo settore, del quale si tace, dei ripetitori televisivi stranieri all’interno del nostro paese. II contrasto è qui, il problema che si deve discutere è questo. Il silenzio del Partito comunista a questo riguardo significa che il Partito comunista ritiene di avere vinto in termini di regime la battaglia costituzionale, ma di poterla vincere solo tacendo. Se il Partito comunista parlasse, se ieri i rappresentanti del gruppo comunista avessero parlato e avessero contrastato le nostre tesi dal loro punto di vista rispettabilissimo punto di vista, ma comunistico e totalitario, sia detto senza alcuna riserva essi non avrebbero polemizzato con noi, ma con la Corte costituzionale, avrebbero contestato l’interpretazione corretta della Costituzione. Il Partito comunista, che finora si diceva interprete di una avanzata concezione della Costituzione, di una interpretazione «progressista» della Costituzione, avrebbe polemizzato con la Corte costituzionale accusandola di essere andata troppo avanti e riportando indietro l’interpretazione della Costituzione per consolidare, attraverso una concezione involutiva e regressiva della Costituzione, il monopolio della RAI-TV come monopolio di regime.
Questa mi sembra sia la realtà della situazione. Se dobbiamo esaminare il merito del problema, non serve aver rilevato agli effetti costituzionali le responsabilità della Democrazia cristiana. L’onorevole Bressani è naturalmente assente come tutti gli altri: non gliene faccio un addebito, ma non si può fare a me un addebito se, in sua assenza, gli dedico qualche cortese osservazione. L’onorevole Bressani era stato incaricato di rispondere a noi e all’onorevole Quilleri, e non poteva farne a meno. Lo ha fatto da par suo, con la sua personale capacità e abilità; ma alle tesi esposte dall’onorevole Roberti il collega Bressani non ha risposto. L’onorevole Bressani ha difeso la costituzionalità dell’adozione del decreto-legge ad opera del Governo. Se avete notato, non avevamo molto insistito, nel quadro delle pregiudiziali, sugli inesistenti motivi di necessità e di urgenza. Non vi avevamo insistito perché è veramente inutile insistere su una eccezione di questo genere in presenza di Governi (non alludo sarebbe ingeneroso all’ appena nato Governo Moro, ma a tutti i Governi di centro-sinistra) i quali hanno ormai instaurato la disinvolta prassi della decretazione legislativa, passando sopra non al dettato della Costituzione, ma talora, come la sorte infausta di tanti «decretoni» e «decretini» ha dimostrato, al buon senso, e persino all’interesse obiettivo del Governo e della cosa pubblica.
Non abbiamo insistito: anzi, siamo così generosi che in questo caso bisogna pur riconoscere che il governo Moro si è trovato ad ereditare una situazione di necessità, provocata dai precedenti Governi, composti dagli stessi uomini, e dalle precedenti maggioranze, composte dagli stessi partiti, ma formalmente diverse e quindi gravate ciascuna da una sua responsabilità. Pertanto, se avessimo troppo insistito sull’eccezione di incostituzionalità relativa alla forma del decreto-legge, avremmo sbagliato. Per il resto, l’onorevole Bressani non ha speso una parola a proposito di quanto l’onorevole Roberti, aveva detto sull’articolo 1, sull’articolo 3, sull’articolo 21, sugli articoli 24, 42 e 43 e sull’articolo 94 della Costituzione. In questo caso si tratta di brani della nostra carne, come parlamentari, come modestissimi studiosi di queste discipline, ma soprattutto come cittadini italiani, se è vero che l’articolo 1 vuole dire democrazia o non democrazia, che l’articolo 3 vuole dire parità e non discriminazione, se vero che l’articolo 21 vuole sancire la libertà di pensiero! Siamo, dunque, di fronte al vecchio discorso da cui è sanguinosamente cominciata, 30 anni fa, tutta questa vicenda. Siamo, dunque, di fronte al discorso delle libertà. Attraverso questa riforma, signor ministro, lo Stato si guarda allo specchio; dopo 30 anni esso riconosce la propria impotenza ed il proprio fallimento. Lo Stato non può, o addirittura non vuole, garantire ai cittadini l’accesso alla libertà di informazione. Dopo aver promesso la libertà per 30 anni, lo Stato, ricorrendo alla necessità (nella migliore tra le ipotesi) o per volontà prava (nella peggiore ma più realistica ipotesi), nega di fatto nel campo dell’informazione radiotelevisiva la libertà che, a parole, da tanti anni va promettendo. Lo Stato si trova di fronte al primo grande impegno costituzionale, perché, mi si consenta, tutte le altre riforme, da quella sanitaria a quella edilizia, sono importantissime, ma senza dubbio lo sono molto meno di questa al nostro esame, poiché nessuna fra tutte le altre riforme, di cui tanto si parla, attiene come questa alle fondamenta del vivere civile. Ripeto, in questo caso lo Stato si guarda allo specchio. Attraverso questa riforma esso confessa il proprio fallimento, la propria impotenza, la sua volontà contraria all’adempimento dei propri fondamentali doveri. Vi sono, peraltro, considerazioni politiche più pertinenti, sempre in riferimento al dettato costituzionale e alla sua interpretazione.
Signor ministro, da qualche mese, forse dal maggio dell’anno scorso credo di non sbagliarmi dalla data cioè della presentazione del disegno di legge dell’onorevole Togni, suo precedessore, ci siamo trovati su un piano inclinato con una serie di avvenimenti significativi. Il disegno di legge Togni non ebbe tempo di far parlare troppo di sé, perché, immediatamente successive, intervennero le sentenze della Corte costituzionale la n. 225 e la n. 226 e vi fu una specie di terremoto. Tale disegno di legge era stato preceduto, oltre che da intese a livello di maggioranza e di Governo, da altre più vaste. Vale a dire da intese dell’«arco costituzionale»: erano stati interpellati i comunisti e i liberali. Il disegno di legge Togni, presentato attraverso il promesso, sia pur condizionato, assenso dei comunisti e dei liberali, aveva potuto rappresentare un temporaneo ancoraggio per quella maggioranza, per quel Governo e per tutto l’«arco costituzionale». Successivamente si scatenò la tempesta delle sentenze n. 225 e n. 226 della Corte costituzionale e la stampa (ne darò qualche documentazione) fu attentissima nei riguardi di tale problema e imbastì una speculazione e una discussione di gran fondo. Si parlò addirittura di terremoto.
Poi ripresero, approfondite, le trattative di vertice; in tempi piuttosto brevi, durante e nonostante la crisi anzi, come elemento di dibattito nel quadro di essa si pervenne, scivolando, alla formulazione di questo decreto-legge da convertire in legge. Vi si arrivò, si badi bene, non andando avanti a seguito degli impegnativi confronti determinati dalle travolgenti è stato scritto sentenze delle Corte costituzionale: vi si arrivò, per quanto riguarda le questioni di fondo che sono la libertà, la parità e la non discriminazione, andando indietro e realizzando sulla pelle di questa riforma il primo esempio palese (se non fosse palese, l’atteggiamento comunista in quest’aula ieri, oggi e certamente domani, fino alla conclusione del dibattito, lo chiarirebbe) di una esperienza legislativa e costituzionale di attuazione del «compromesso storico»: perché a ciò si è giunti. Né si dica al segretario del MSI-Destra nazionale che queste sono nostre motivazioni di speculazione: sarebbe molto imprudente se dai banchi del Governo o della Democrazia cristiana o dei partiti che l’appoggiano ufficialmente si sostenesse che non è così: molto probabilmente si alzerebbe, come ha fatto in un recente passato, l’onorevole Amendola, per esortare i demo-cristiani alla cautela e alla moderazione. Egli direbbe ai democristiani: andateci piano, perché se questo decreto-legge non ci piacesse, non passerebbe; se non ci fosse stato almeno parzialmente gradito, non avreste potuto nemmeno presentarlo; non avreste potuto nemmeno concepirlo, se non fosse stato preceduto da colloqui e contatti con la nostra parte.
Questo decreto-legge è l’atto formale attraverso il quale il Partito comunista entra nel suo neo-regime, si installa al vertice di esso avendo come giaciglio le libertà degli italiani malamente vendute da una maggioranza che si dichiara democratica e si permette di discriminare chi combatte dall’opposto verso per la libertà. Ho parlato di una marcia verso la libertà da parte della Corte costituzionale. Spero che il presidente del mio gruppo non mi condanni, se mi permetto qui di parlare della Corte costituzionale con il massimo rispetto, ma anche con una certa libertà di giudizio. Non ci siamo sempre compiaciuti per talune decisioni anche recenti della Corte; soprattutto non ci siamo sempre compiaciuti per dichiarazioni di cui il presidente della Corte stessa avrebbe in taluni casi potuto fare a meno. La nostra è una posizione assolutamente obiettiva, serena e distaccata, anche e soprattutto nel momento in cui ci sembra di poter dire che il regime, attraverso il sostegno offerto a questo decretolegge, abbia voluto un po’ sovvertire la storia. Evidentemente, ci troviamo di fronte ad un nuovo schiaffo a Bonifacio… e non credevo che un nuovo schiaffo a Bonifacio potesse provenire dal clerico-marxismo: è una nuova interpre-tazione della storia, e me ne dispiace; né dirò che il presidente della Corte costituzionale se lo sia meritato; mi dispiace sinceramente.
Che cosa intendo quando dico che la Corte ha marciato costantemente, anche se lentamente e con indugi pesanti e responsabili, verso la libertà? Intendo dire che sulla Corte costituzionale, a nostro avviso, hanno pesantemente influito tre elementi di cui bisogna tener conto per i motivi che mi permetterò subito di illustrare. Il primo di essi è costituito dal progresso tecnologico, il quale ha modificato, se non addirittura capovolto, le situazioni e le posizioni in tutto il mondo e quindi, seppur virtualmente, anche in questo ritardatissimo paese progredito che è l’Italia democratica. Il secondo è dato dalla negativa esperienza della gestione monopolistica. Il mo-nopolio, infatti non ha trovato un solo difensore; non c’è un collega che abbia il coraggio parlo ai banchi, ma se l’aula fosse piena potrei ripetere tranquillamente, senza essere interrotto da alcuno, quello che sto dicendo di difendere l’esperienza del monopolio radiotelevisivo così come essa si è verificata e manifestata in Italia nel corso del dopoguerra, tanto è vero che, essendomi riletto attentamente tutti i precedenti dibattiti, non ho trovato un solo collega il quale si sia levato per difendere in toto il monopolio. Tutti coloro che sono stati chiamati alle pur legittime e doverose difese d’ufficio se la sono cavata proprio come il classico difensore di ufficio. Il monopolio, cioè, è un delinquente, ma ha delle attenuanti: questo è il massimo cui si è arrivati. Non si poteva, perciò, pensare che un’esperienza ormai quasi trentennale e negativamente giudicata da tutti i partiti, da tutto l’arco parlamentare, dall’intera opinione pubblica, da tutti gli ambienti di stampa mancasse di influire sui giudizi e sulle decisioni della Corte costituzionale.
Non è poi da sottovalutare l’ondata di opinione pubblica che si è via via montata contro quello che viene definito lo scandalo della RAI-TV. A questo riguardo e mi rimetto sempre alla cortesia del signor ministro perché si faccia relatore, io spero, delle opinioni che esponiamo state attenti, perché vi sono fatti di opinione che, nel loro montare e nel loro accentuarsi (non è il caso che si alzi la voce, signor ministro: dico amabilmente queste cose, anche se ritengo siano abbastanza gravi), travolgono qualsiasi regime. Si è parlato molto dei risultati del 12 maggio come fatto di opinione: io convengo che tali risultati abbiano pesato sull’opinione pubblica italiana e quindi sui relativi eventi politici. D’altra parte eravamo stati i soli ad ammonire in precedenza tutti i settori dell’opinione pubblica italiana circa le conseguenze pesantissime che si sarebbero determinate politicamente ed in termini di opinione proprio a seguito di un certo risultato del referendum. Non crediate perciò di uscirne con una riforma di questo genere senza che la pubblica opinione registri questo dato e, via via, lo vada montando, a meno che questa pessima legge non partorisca un ottimo monopolio. È prevedibile ciò? È pensabile che aggravando ed accentuando, se possibile, le precedenti discriminazioni, perfezionando le precedenti lottizzazioni, rendendo ancor più putridi i precedenti mercati, contaminando ancora di più la già contaminatissima atmosfera della radiotelevisione italiana si giunga a risultati che l’opinione pubblica possa apprezzare, con la differenza che prima ella, signor ministro, è democristiano le altri parti politiche avevano un capro espiatorio (non è vero? Si trattava di Bernabei, di Fanfani…), ma da adesso in poi il capro espiatorio sarà il regime? E se per caso qualcuno fosse indotto a non accorgersene, la destra nazionale farà sì che tutti se ne accorgano. Voi potete discriminarci nei comitati, nelle commissioni, soprattutto ve lo consiglio nei consigli d’amministrazione; voi potete stabilire, attraverso questa legge, norme in base alle quali una formula come i «quattro quinti» intende significare che il Partito comunista non deve essere escluso ed una formula quale i «tre quarti» che socialisti e comunisti sono determinanti, nel consiglio d’amministrazione, quando si deve approvare il bilancio. Voi potete fare tutto ciò, ma state in guardia contro una campagna di civile disobbedienza scatenata dalla destra nazionale! Voi non avete idea, probabilmente, di quel che possa essere una campagna che non ho definito di disobbedienza civile, ma opposta, di civile disobbedienza, scatenata da una forza come la nostra! Sbagliate quando pensate che gli italiani, colpiti da voi nell’onore, nel diritto, nella sensibilità, raggiunti e perseguitati nei propri domicili ogni sera, colpiti scandalosamente attraverso una legge che è anche di profitti di regime (scandalosa legge di profitti di regime), colpiti attraverso una legge che è anche, indirettamente, legge fiscale iniqua; sbagliate dicevo quando pensate che gli italiani non possano essere da noi raggiunti nei loro domicili, nelle case, nelle piazze, nelle strade, nelle scuole e nei luoghi di lavoro. Siamo nella condizione di raggiungere milioni di italiani, molti di più dei non pochi che finora ci hanno votato.
Sbagliate, quando ritenete di intraprendere contro la destra nazionale una battaglia di questo genere senza tener conto delle implicazioni e delle conseguenze di opinione. Dovrei financo dirvi ma non lo penso, perché il problema è troppo grave e non si presta a speculazioni che vi ringraziamo, perché ci collocate in questo modo al vertice della opinione pubblica italiana, come soli difensori della libertà che conta, la libertà di essere informati (non voglio dire di essere formati, poiché intendo attribuire all’intiero popolo italiano la capacità di formarsi autonomamente attraverso la libertà dell’informazione). Voi negate la libertà dell’informazione e rispondete come ha fatto ieri il pur valido collega Bressani, alla nostra eccezione di incostituzionalità, dimenticando che esiste la concorrenza come garanzia di libertà; dimenticando che, quando chiediamo che la libertà venga tutelata, non domandiamo che lo Stato rinunzi al servizio informativo e formativo della televisione e della radio.
Chiediamo soltanto che si dia modo ad altre fonti, in concorrenza tra loro e con lo Stato, di far sì che gli italiani abbiano informazioni complete. Chi darà ai cittadini di Roma, ad esempio, ai numerosi cittadini di Roma che non leggono quotidiani, o che non leggono certi quotidiani, o che non leggono il nostro quotidiano, le notizie che le ho riferito poco fa, signor ministro, circa grosse bombe esplose questa notte? E perché i cittadini di Roma non debbono poter essere informati anche di quelle notizie, salvo farsene un giudizio autonomo? Un giudizio che in taluni casi può esserci favorevole, e in molti altri casi forse ci contrasta. Quando, per altro, una forza di Governo arriva a negare, concettualmente, il principio della concorrenza, siamo in pieno regime, siamo anche in un regime oso dirlo poco intelligente. Ma come? Avete tentato di combatterci, di metterci all’indice, siete riusciti perché non dirlo? a crearci delle difficoltà, per lo meno propagandistiche, abbastanza notevoli, reiterando, con il sistema tipico del bourrage des crànes, il tema del nostro presunto totalitarismo e della nostra incapacità di inserirci in un quadro di libertà e di democrazia; avete, fino all’ossessione (l’ ho ricordato rispondendo al signor Presidente del Consiglio nel dibattito sulla fiducia), insistito sul vieto tema, ormai stinto, spento e ridicolo, del fascismo-antifascismo; ci avete appiccicato (o tentato di appiccicarci) addosso le qualifiche più ripugnanti proprio a questo riguardo: avete fatto tutto questo e ora ci date una etichetta, una bandiera, un gonfalone di libertà in ordine ad un problema che interessa tutti gli italiani perché è il pane della mensa di tutti gli italiani! Pertanto noi entreremo in tutte le case grazie a questo vostro atteggiamento, ogni giorno, ogni sera, ed ogni italiano, a cui ripugnerà la televisione di regime, troverà un solo riferimento nell’animo suo, nel suo sentimento e nelle sue speranze. Non ci sarà antifascismo che tenga, non ci saranno campagne al-larmistiche che tengano, e non ci sarà più la possibilità di dire che è inutile la posizione della destra nazionale. Se non ci fossimo noi in questo momento, chi sarebbe in quest’aula a difendere i diritti dei cittadini italiani? Chi sarebbe in quest’aula a promuovere una campagna, onorevole ministro, che stamane devo dare atto qualche solidarietà esterna ha cominciato a raccogliere? Era molto tempo che la stampa quotidiana non del tutto contraria alla destra non assumeva posizioni in favore di nostre tesi o di nostri atteggiamenti. Posso dire che erano mesi, forse debbo risalire al 1973 per ricordare una qualche campagna di stampa indipendente anche larvatamente favorevole alle tesi e alle posizioni da noi sostenute.
Stamane ci sono diversi quotidiani che prendono posizione o apertamente o meno apertamente in nostro favore; stamane il nostro ostruzionismo viene definito da taluni giornali indipendenti, con articoli di prima pagina, come un ostruzionismo positivo a difesa dei diritti delle libertà. Voi credete che questo conti poco? Che sia un errore di poco momento? Voi, che vi accingete a far venire in quest’aula un già traballante, anche se neonato come tale Presidente del Consiglio, a porre la questione di fiducia su questa imposizione, non pensate che questo sia un errore colossale? Voi che attraverso i vostri gruppi state convocando la Giunta per il regolamento per tentare assurdo tentativo, ma proprio per questo più sciocco ed iniquo di travolgere i regolamenti parlamentari, nel momento in cui il regime anche in questa aula vorrebbe imporre la sua legge sopraffattrice cosa che per la verità da trenta anni a questa parte è stata più volte annunciata, ma non è stata perpetrata non vi rendete conto che anche in quest’aula, dove non potete spegnere né bloccare la nostra voce, vi coprite di ridicolo e di infamia attraverso posizioni di questo genere? Perché lo fate? Per il motivo che ho detto poco fa: perché siamo all’attuazione del «compromesso storico», perché questa è la logica del «compromesso storico». Perché erano stolidi coloro tra voi, che io ritengo in buona fede e ritengo anche molto numerosi, i quali ritenevano che il «compromesso storico» in definitiva si potesse realizzare con poco costo e con molto profitto.
In fondo il loro ragionamento era che i comunisti avrebbero approvato le loro leggi, avrebbero regalato loro dei voti per coprire i vuoti che i «franchi tiratori», sempre più numerosi, determinavano nelle loro file; il tutto in cambio di due posti, secondo la spartizione della torta che abbiamo letto sui giornali. Due posti nel consiglio d’amministrazione, cioè un posto in meno dei socialisti, contro i sette dei democristiani, i due dei socialdemocratici, il posto assegnato ai liberali lasciamo andare questa faccenda che non è molto decorosa e il posto assegnato ai repubblicani. In pratica il ragionamento dei democristiani era che i comunisti li avrebbero aiutati a far passare le leggi e a bloccare l’ostruzionismo della destra nazionale perché essi democristiani soli non hanno la necessaria forza di presenza e di resistenza. In definitiva, il nuovo staff della RAI-TV assomiglierà come due gocce d’acqua al precedente staff, tranne qualche inserimento; del resto il dottor de Feo disse e documentò che i comunisti erano ben presenti e in gran numero. E non solo ci sono, ma ci mangiano! Per esempio, da tanto tempo attendiamo una risposta ad un intervento dell’onorevole Giuseppe Niccolai, il quale documentò in quest’aula che l’onorevole Terracini, «ninfa egeria» di tutti i regimi e di tutte le libertà, si fa pagare quando concede una intervista alla TV (son cose che forse agli altri colleghi non accadono). I comunisti, in definitiva, ci danno l’appoggio, lasciano passare la legge, dentro ci sono già, ci mangiano… Eh, no! I comunisti, fra i tanti vantaggi di minor conto, talora di poco conto, hanno un vantaggio, signor ministro, che è il vantaggio tipico dei partiti e dei regimi totalitari: mettono il bollo!
Dall’approvazione di questa legge, uscirete tutti bollati (ella in testa, onorevole ministro, come responsabile di questo settore) con un bel timbro. E sul timbro sarà scritto: totalitarismo. Ve lo sentirete dire, ve lo sentirete ripetere e, ahimè, ve lo sentirete dimostrare, purtroppo, negli anni e nei mesi che verranno, finché questo obbrobrio non sarà travolto. E ho sbagliato quando ho parlato di mesi e di anni, perché questo obbrobrio sarà abbastanza presto travolto, se torniamo al discorso di fondo che stavamo facendo, a proposito della marcia verso la libertà della Corte costituzionale. E allora che farete? Discriminerete la Corte costituzionale? Scioglierete la Corte costituzionale! Leggeremo sui muri: sciogliere il MSI-Destra nazionale, la DC che lo protegge e la Corte costituzionale che li sorregge. Oppure sarà omessa la DC e ci saranno soltanto MSI-Destra nazionale, come al solito, e la Corte costituzionale? Fa anche rima, signor ministro. Perché, se non arriverete a questo, il conflitto scoppierà abbastanza presto e la legge, qualora non riuscissimo a mandarla noi a rotoli con la nostra più che legittima battaglia, verrà mandata a rotoli tra qualche settimana o fra qualche mese, al primo incidente che sarà sollevato presso la Corte costituzionale. E ne sia certo: qualche cittadino che sollevi l’incidente ci sarà. E ci sarà non appena la legge sarà stata, eventualmente e sfortunatamente, varata. Vuole qualche argomento a questo riguardo, onorevole ministro? Ecco, mantengo quel che ho detto, non ripeterò una parola di quanto hanno detto ieri l’onorevole Roberti, l’onorevole Baghino e l’onorevole Guarra. Farò solo qualche considerazione aggiuntiva per chiarire questo punto, e cioè che la Corte costituzionale andrà innanzi, e non può ormai non andare innanzi.
Consideri qualche dato. Sentenza della Corte costituzionale n. 59 del 1960, di cui tanto si è parlato. Ieri, i nostri valorosi colleghi hanno accennato al fatto d’altra parte, ovvio che alla sentenza della Corte si giunse perché in precedenza era stata dichiarata non manifestamente infondata la relativa eccezione di illegittimità costituzionale. Vediamo un po’ come mai era stata dichiarata non manifestamente infondata, cioè donde si era partiti. Si era partiti, nel 1960, da un’ordinanza del Consiglio di Stato secondo cui il monopolio è di ostacolo all’attuazione dell’articolo 21 della Costituzione sotto il profilo qualitativo e quantitativo, perché lo Stato ed è il linguaggio del Consiglio di Stato (vi mettete contro, probabilmente, un po’ tutti gli organi istituzionali per lo meno quegli organi istituzionali che per forza mantengono ancora il loro prestigio e sono decisi, sembra, a difendere il quadro istituzionale democratico) perché lo Stato, dunque, dice testualmente il Consiglio di Stato «potrebbe escludere dalla diffusione in base a propri criteri ideologici una determinata corrente di pensiero». Che cosa vuol dire questo? Vuol dire che all’attenzione del Consiglio di Stato nel 1960, quando eravamo ancora lontani dalla logica di regime che purtroppo sta travolgendo le istituzioni era già chiaro che lo Stato italiano di questo dopoguerra tanto poco è Stato, nel senso democratico, pregnante e garantista del termine e tanto è legato all’esecutivo, al Governo, ai partiti politici, che potrebbe escludere, in base a propri criteri ideologici, una corrente di pensiero. Il problema di fondo è questo. Quando si dice che la riserva allo Stato in termini di monopolio, è legittima per difendere gli interessi della collettività in quanto tale, evidentemente si fa riferimento ad uno Stato che non ha propri criteri ideologici diversi da quelli che discendono da una corretta e, non dico unanime, ma molto ampia interpretazione del dettato costituzionale. Se invece lo Stato viene ritenuto dal Consiglio di Stato capace di far prevaricare propri criteri ideologici su correnti di pensiero legittimate nel paese, evidentemente esso degrada, secondo il giudizio del Consiglio di Stato, a parte: non è più garanzia; necessitano, anzi, garanzie contro quella come contro qualsiasi altra parte.
A questo punto il monopolio cade, cade nella sua legittimazione di principio, non ha più senso. La Corte costituzionale neppure nelle sentenze n. 225 e n. 229 è giunta ancora ad un siffatto livello di chiarezza, ma non può non arrivarci, perché queste cose montano. Come vede, siamo ancora al 1960, ai precedenti di queste ultime sentenze; è il Consiglio di Stato che parla, un organo molto meno autonomo, molto più condizionato di quel che può essere una Corte costituzionale nel quadro delle sue garanzie e delle sue possibilità; però si afferma già questo concetto. Voi non avete il diritto perché non ne avete la capacità di parlare in nome dello Stato e come Stato: siete una parte, e tanto più lo diventate quando vi scoprite poi come Stato che discrimina, e quindi come regime. Sa, onorevole ministro, come si difese nel 1960 l’avvocatura dello Stato, dello Stato come abbiamo chiarito esso era, e come purtroppo, degradando e peggiorando, continua ad essere? L’avvocatura dello Stato, in contrasto, sostenne che la inidoneità del mezzo televisivo ad assicurare la parità dei diritti di tutti i cittadini porta a convincere che la TV non rientra nella sfera di applicazione dell’articolo 21 della Costituzione. L’avvocatura dello Stato, di questo Stato (ed eravamo al 1960, ripeto), trovava cioè questa sola difesa: l’articolo 21 non è attuabile per quel che riguarda la televisione, il mezzo televisivo, e pertanto la libertà dell’informazione, l’obiet-tività dell’informazione, la pienezza dell’informazione non possono essere garantite a quei milioni e milioni di cittadini i quali, come unico veicolo di informazione, hanno per l’appunto, come stato di necessità e per imperio di regime la radiotelevisione di Stato. Siamo nel 1960, ma le tesi, una volta affermate, hanno una loro logica, un loro determinismo, montano, portano a delle conseguenze: siamo, signor ministro, ad un dibattito globale, come piace affermare all’onorevole Ugo La Malfa. Solo che l’onorevole La Malfa sbaglia: il dibattito globale non è e non può essere quello pure importantissimo socio-economico; il dibattito globale è quello sulla libertà. Questo è il nodo da sciogliere, è la questione di fondo; ecco, ripeto, la ragione del nostro impegno in questo caso. La Corte che cosa ne dedusse nel 1960? Validamente, ma timidamente, essa si limitò ad affermare l’esigenza di leggi destinate ad assicurare imparzialità ed obiettività. Timidamente. Però quando la Corte Costituzionale, già nel 1960, affermava l’esigenza di leggi atte ad assicurare imparzialità ed obiettività, che cosa voleva rilevare, non solo in ordine all’articolo 43, ma anche e soprattutto all’articolo 21 della Costituzione? Non solo che lo Stato, in quanto tale, non è garante di imparzialità ed obiettività, ma che contro lo Stato, così come esso è, in quanto tale, occorrono le garanzie, per legge, di imparzialità e di obiettività. Principio molto importante, che ha lavorato nel tempo e attraverso il quale siamo arrivati alle nuove sentenze.
A proposito delle sentenze n. 225 e n. 226, l’onorevole Roberti ieri ha molto validamente sostenuto che la Corte costituzionale è caduta in un imbroglio in quanto si è affidata ad una perizia di parte, alla perizia redatta a cura del Ministero che ella, senatore Orlando, ha l’onore di dirigere, quando altri ne era il titolare. Ho letto su un giornale, a questo proposito, uno spiritoso commento: chiedere una perizia di quel genere a quell’organo ministeriale è la stessa cosa che chiedere all’acquaiolo se l’acqua è fresca.
Come, infatti, poteva rispondere quell’organo ministeriale, se non nella guisa in cui ha risposto? Il che mi induce e ne chiedo scusa all’onorevole Roberti a ritenere che la Corte costituzionale si sia un po’ lasciata imbrogliare, si sia adagiata nell’imbroglio, perché non mi risulta che quando si tratta di discutere una causa importante il giudice si affidi ad una perizia di parte; penso che il giudice debba piuttosto chiedere una perizia d’ufficio. Non sono avvocato, ma ho l’impressione che si usi così. Altrimenti, tanto valeva, da parte della Corte costituzionale, accettare per detto il parere dell’avvocatura dello Stato, la quale si presenta almeno credo ai dibattimenti di fronte alla Corte per sostenere i suoi avvisi, ma non con la presunzione di farla prevalere solo perché li ha affermati lo Stato. Lo Stato può portare, a convalida delle sue tesi, una perizia, ma non è che quella perizia debba risultare l’elemento determinante e decisivo: è molto strano che la Corte costituzionale non abbia chiesto una controperizia. Cosa che, del resto sarebbe stata molto facile, perché, se per avventura all’interno dei confini del nostro arretrato e progreditissimo paese non si fossero trovati dei tecnici o degli esperti, indubbiamente molti ne esistono in ogni parte del mondo, così come in ogni parte del mondo oltre agli esperti esistono le esperienze. Come si fa a sostenere che l’Italia non dispone di un certo numero di bande (credo che si chiamino così), se ogni paese al mondo e anche paesi molto meno importanti e qualificati (o squalificati) del nostro le possiede, le utilizza, le fa utilizzare? Ciò non significa che dobbiamo accettare i sistemi o i moduli di quei paesi; ciò non significa che quei paesi abbiano ragione e non torto: può anche darsi che, pur disponendo degli stessi strumenti, noi si ritenga, per il bene del nostro paese, di utilizzarli diversamente. Ma non è assolutamente accettabile che nel 1974-1975 una commissione ministeriale ci venga a raccontare che in Italia non è possibile disporre di bande di frequenza se non in numero talmente limitato da dar luogo per forza a degli oligopoli di potere (poi vorrei pur discutere su questa faccenda degli oligopoli, che ci venne raccontata per la prima volta dall’onorevole Riccardo Lombardi in quest’aula ai tempi della non mai abbastanza lodata nazionalizzazione dell’energia elettrica). Ne abbiamo tante, di bande! Proprio queste ci mancano? Costituitele !
Mettetevi d’accordo con l’ultrasinistra! Siamo pieni di bande e banditi, ma ci mancano proprio le bande della libertà. Bande della sovversione e della violenza ognuno le ha, in questo regime, ma quelle della libertà no! Oppure «ce ne sono poche». Vorrei sapere che cosa significa. Ce ne sono due, tre o quattro? Poche in rapporto a che? Si vorrebbe una banda per ogni cittadino? Per ogni utente? Per ogni provincia? Per ogni regione? Per ogni città? Oppure se ne vuole una per ogni organizzazione sindacale, naturalmente facente parte della «triplice»? Oppure una per ogni partito? Oppure la Democrazia cristiana vorrebbe una banda per ognuna delle sue correnti? Oppure il Partito socialista vuole la banda De Martino, oltre alla «banda Mancini», che opera in Calabria da tanto tempo con così eccelsi risultati? Spiegatemi che cosa si vuole e facciamola finita, come ho detto prima, con questa storia dell’oligopolio. Se per avventura si chiarisse che è possibile dare luogo a due, tre, quattro, cinque televisioni libere in concorrenza con la televisione statale, di cui nessuno, meno di tutti noi, negherebbe la legittimità, perché gli italiani dovrebbero essere condannati a vedere il Telegiornale democristiano o quello socialista? Non potrebbero vedere il giornale televisivo diffuso da un gruppo qualsiasi? Dite che si tratterebbe di un oligopolio. E voi che cosa siete? Non siete oligopoli? Non siete oligopoli consociati temporaneamente, consorziati? Il Governo della Repubblica non è consorzio di oligopoli? Che cos’altro è? E che differenza fa? E perché non collaudare questi oligopoli nella ricerca della verità in concorrenza con altri oligopoli? Diceva l’onorevole Bressani: ma come farebbero i contadini e gli abitanti delle campagne e delle piccole città (perché gli oligopoli nascerebbero nelle grandi città)? E quando avete voluto costituire consorzi, Federconsorzi, Federterra per consociare gli interessi dei contadini o, per dir meglio, per sovrapporre leciti e illeciti interessi politici e amministrativi vostri e di partito a quelli del mondo dell’agricoltura, come vi siete comportati? Non facciamo ridere! E siccome argomenti risibili non reggono, è evidente che l’imbroglio è passeggero. Le perizie arriveranno alla Corte costituzionale. Potrei dire che le nuove perizie stanno già arrivando. La Corte costituzionale (alla quale mi sono permesso di fare un addebito, ma alla quale ho riconosciuto il coraggio di una marcia indubbia verso la libertà) da un lato si è lasciata bloccare, ma dall’altro ha colto l’occasione proprio delle perizie, cioè dello stato del progresso tecnologico, per dire: siccome il progresso tecnologico si è affermato per quanto riguarda la TV-cavo e i ripetitori esteri, in questi settori non vi può essere monopolio. Anzi la Corte costituzionale ha detto qualche cosa di più a proposito dei ripetitori: niente autarchia delle fonti di informazione. Come la mettiamo? Io ho sempre saputo, onorevole ministro, che l’autarchia verso l’esterno è il riflesso del totalitarismo all’interno. Mi sembra di non sbagliare: non può vivere l’ una se non vive l’altro. Anche in termini di politica economica, come potrebbe un regime adottare una politica autarchica verso l’esterno se non avesse organizzato monopolisticamente e totalitariamente il sistema economico all’interno? Un regime che all’interno sia di libera concorrenza non può determinare, per definizione, l’autarchia verso l’esterno. E quando la Corte costituzionale afferma che non vi può essere autarchia delle fonti di informazione, che cosa vi dice? Vi dice che occorre perseguire la libertà delle fonti di informazione. La Corte costituzionale si blocca, per ora, o, per dir meglio, si lascia bloccare, perché ì vostri tecnici di parte le hanno detto che non ci sono bande. Ma siccome i vostri tecnici di parte non hanno potuto dirle che non si possono installare i ripetitori delle trasmissioni straniere, la Corte costituzionale ha detto che in questo settore non vi può essere autarchia. E non appena i tecnici, non di parte, ma d’ufficio (quelli seri), avranno detto che ci sono le bande, o che possono esserci, la Corte costituzionale non potrà non dirvi ex ore suo: niente autarchia delle fonti di informazione verso l’esterno, libertà delle fonti di informazione all’interno. Tra l’altro, ci metteremmo nella condizione, per esempio, di sentire la televisione francese che comunica agli italiani che il Movimento sociale italiano-Destra nazionale ha tenuto a Roma una grande manifestazione. Io penso di dover ricorrere, tra qualche mese, a televisioni straniere.
Io non ho, come tanti tra voi vantano di aver avuto, l’animo del fuoruscito. Io credo che le battaglie si debbano combattere nel proprio paese. E se qualche cosa caratterizza gli uomini tutti gli uomini della destra nazionale, questi miei cari amici, è proprio questa volontà indiscutibile, di combattere qui le più dure battaglie, di farci discriminare qui, di farci combattere qui, di reagire con tutti i mezzi che la legge ci consente, ma non di andarcene. Ma, pur non avendo l’animo del fuoruscito, visto che le televisioni straniere, non so se lo sappiate (soprattutto alcune come la francese, le tedesche, l’olandese, la belga, la norvegese, la svedese, l’inglese, le svizzere), richiedono ogni 15-20 giorni interviste ai dirigenti del nostro partito, noi avremo l’onore di fare degli accordi e gli italiani avranno la mortificazione siete voi che riceverete lo schiaffo di sapere una parte della verità e delle informazioni attraverso le televisioni straniere, le quali, fra l’altro, essendo a colori, essendo probabilmente meno «mangerecce» e quindi meglio fatte, essendo meno noiose, presentando dei volti cui gli italiani, almeno per qualche mese, non si saranno così maliziosamente assuefatti da domandarsi come ci stiamo domandando se siano i veri volti oppure le imitazioni di Noschese, costituiranno un ottimo veicolo per la libertà d’informazione degli italiani all’interno del nostro paese.
Sono queste le situazioni alle quali vi esponete attraverso una riforma di questo genere. La Corte costituzionale, ripeto, è stata chiarissima a questo riguardo circa la libertà della televisione via cavo. Avete cercato di porre limitazioni, di frenare in qualsiasi modo questo processo, ma sapete benissimo che esso non può essere frenato perché è legato a grossi interessi. Qualcuno tra di voi ha avuto il coraggio di dire che si trattava di impianti installati a scopo di lucro: ma voi questo servizio lo prestate forse gratuitamente? Voi costate molti soldi agli italiani. Io ho i dati relativi ai costi orari della televisione italiana in rapporto a quella svizzera. E siete forse così costosi perché i vostri collaboratori si fanno pagare cari? Ma no, io non indulgo a queste argomentazioni scandalistiche che hanno poco interesse. Siete costosi perché avete bisogno di numerose équipes di collaboratori, e perché, non essendo d’accordo tra di voi, costituite un regime che non ha neppure il vantaggio o il pregio dei regimi seri, che è quello dell’unità di comando. Voi avete l’unità di imbroglio nella varietà dei comandi, dei sottocomandi, delle «cosche», delle «mafie». E tutto questo costa caro. Avete ridotto la televisione ad una grande «mafia» di Stato, ad una «cosca» dì Stato con i bosses che sparano ne parleremo tra poco palle infuocate l’uno contro l’altro. Naturalmente, tutto questo costa caro al popolo lavoratore italiano.
Ma la Corte costituzionale, andando avanti verso la libertà, ha fatto qualche cosa sulla quale non so se ella, onorevole ministro, abbia meditato. La Corte costituzionale è stata concepita dall’Assemblea Costituente in guisa tale da poter cassare una legge, ma non da poter riempire gli eventuali vuoti. Consapevole di questo suo stato di minorazione rispetto al Parlamento, la Corte costituzionale di solito, in passato, si è limitata, cassando delle leggi o facendo cadere dei principi, a dare dei generici e sfumati consigli e indirizzi al legislatore. Questo, infatti, la Corte stessa ha fatto nel 1960 (sentenza n. 59), in ordine alla riforma della RAITV. Questa volta la Corte costituzionale non si è fermata a questo, ma ha voluto stabilire, con le sentenze n. 225 e n. 226, non solo dei principi e degli indirizzi, ma dei limiti e delle direttive precise cui avete cercato, in parte riuscendovi ed in parte no, di sfuggire. La Corte costituzionale, questa volta, non si è limitata a dichiarare illegittime le norme finora vigenti, ha precisato che le nuove norme debbono attenersi ai principi da essa indicati. Ed ha fatto qualche cosa di più: fra i principi ne ha indicato uno (e questa è l’unica cosa che io ripeto di quanto ha detto l’onorevole Roberti, perché mi interessa più di ogni altra) affermando che la TV deve essere aperta imparzialmente ai gruppi nei quali si esprimono le varie ideologie presenti nella società. Mi pare che questa sia una indicazione tassativa; e qui casca l’asino, signor ministro, perché una eccezione di incostituzionalità relativa a questo preciso indirizzo sarà certamente sollevata, e la legge farà appena a tempo ad essere varata che ci troverete a dover dimostrare l’impossibile, cioè di avere ottemperato a questa indicazione tassativa, proprio nel momento in cui l’avete spudoratamente, sfacciatamente violata. E non solo la violate nella legge, ma andate oltre, o almeno qualcuno di voi va oltre. Leggetevi il comunicato del gruppo socialista!
Il gruppo socialista poteva benissimo, nel quadro di discussioni o di dibattiti interni, come spesso accade, assumere questa o quella posizione, dire «no» a determinate profferte o richieste che venivano da altre parti della maggioranza. Ma quando il gruppo socialista, relativamente ad un tentativo di attenuare la discriminazione sancita in questa riforma, dice ufficialmente di no e lo dice durante il dibattito parlamentare, e ritiene di doverlo pubblicare in un comunicato, ebbene, questo per un giudice costituzionale rappresenta una occasione anche troppo facile per smascherare non soltanto i vizi di incostituzionalità, ma le colpe, il dolo. Qui c’è la manifesta volontà di truffare, insieme con la Corte costituzionale, le libertà degli italiani. Infine la Corte costituzionale questa volta ha indicato i fini cito testualmente perché «il monopolio pubblico potrebbe tendere a fini e portare a risultati diametralmente opposti a quelli voluti dalla Costituzione». Diametralmente opposti!
Quando, pertanto, all’inizio di questo mio intervento, mi sono permesso di rilevare che vi è un indirizzo di libertà, un indirizzo innovatore, un indirizzo di interpretazione aperta della Costituzione che viene portato avanti da noi, essendo stato portato molto coraggiosamente e perspicuamente avanti dalla Corte costituzionale, e che vi è un contrastante indirizzo di regime, mi riferivo, con esattezza, a una affermazione della Corte costituzionale la quale, ancora prima di conoscere quel che sarebbe accaduto in sede di regime, ancora prima di conoscere quel che avreste fatto e le conseguenze che avreste dedotto dalle sue sentenze n. 225 e n. 226, ha ammonito (è una specie di lapide): «il monopolio pubblico potrebbe tendere a fini e portare a risultati diametralmente opposti a quelli voluti dalla Costituzione». A questo punto, occupiamoci per il momento delle vostre posizioni attuali, riferendoci alla relazione della maggioranza.
Io ho molta simpatia per l’onorevole Bubbico, che ho sempre considerato un uomo d’ordine. Conosco meno l’onorevole Marzotto Caotorta, ma penso di non offendere la sensibilità e il garbo né dell’uno né dell’altro non è nella mia intenzione se mi permetto di dedicare loro una battuta (prendetela, per favore, come una battuta). Ho il Bubbico… che sia un po’ Caotorta questa vostra relazione della maggioranza. E il Bubbico mi viene,… il dubbio mi viene quando attentamente, come è mio dovere e come è mio piacere, io la leggo: perché vedo le firme di Bubbico e di Marzotto Caotorta, ma io ci sento il Fracanzani, altro collega nei riguardi del Quale, naturalmente, ho la massima simpatia e deferenza. Ci sento il Fracanzani, perché è un uomo d’ordine come l’onorevole Bubbico e un personaggio come l’onorevole Marzotto Caotorta (un uomo con due cognomi,per giunta), difficilmente senza una
ispirazione fracanzanea, o granellesca, non so, scriverebbero cose di questo genere.Vi cito (e ciò sia detto fuori di un mal concepito moralismo): «In nome di un corretto rapporto tra potere politico e azienda televisiva, rapporto da non considerarsi sempre e comunque elemento di corruzione e di corrompimento, da ricostruire responsabilmente» vi prego di fare attenzione «nella pratica quotidiana, fuori degli interessi autogeneratisi dal sistema dei partiti». Questa frase è meravigliosa. Non so se ci si riferisca agli autogeneratori di corrente, che possono essere necessari in caso di uno sciopero dell’ENEL. È poi da notare: il sistema, gli interessi, «come spinta» (ecco Fracanzani: quando trovo la parola «spinta», io penso sempre ad una ispirazione democristiana di sinistra) «ad una maggiore maturazione dei “quadri”, al di là di un asettico aziendalismo». Questo è il tocco finale: «asettico aziendalismo». Questo asettico aziendalismo, nel quadro degli interessi autogeneratisi, costituisce veramente un quadro di ambiente democristiano 1974.
Non desidero tuttavia cavarmela in questo modo. Voglio rilevare e non mi sarà difficile dimostrarlo che la risposta che questa maggioranza ha dato alle sentenze n. 225 e n. 226 della Corte costituzionale dimostra che «l’arco costituzionale» volta le spalle alla Corte costituzionale. È questa una tesi che, espressa a freddo e a vuoto, potrebbe anche sembrare generica o addirittura provocatoria, mentre si tratta di una tesi che, nel quadro delle considerazioni che sto svolgendo, mi sembra assolutamente valida. Ora, la maggioranza ha risposto alle sentenze della Corte costituzionale con un decreto-legge, prendendo lo spunto dallo stato di necessità e dalle condizioni forzate che io stesso poco fa ho riconosciuto. Fin qui poco da obiettare, a costo di essere censurato dai più scrupolosi costituzionalisti. Ma questo è soltanto il modo della risposta. Tuttavia quando ci troviamo davanti ad una sentenza della Corte costituzionale (di molti mesi fa) la quale costituisce un impegno in termini di libertà, non possiamo poi prescinderne anche nella sostanza.
Vediamo invece qualche tratto non umoristico della relazione della maggioranza. Dicono i relatori, a pagina 5, che «il lungo, complesso cammino della riforma della RAI-TV, opportunamente collegata con la regolamentazione della TV-cavo locale e dei ripetitori stranieri, è contraddistinto da un parallelo impegno della Corte costituzionale». Se «parallelo» è un termine da voi usato una volta tanto in senso matematico-geometrico, allora voi avete perfettamente ragione; ma se, per avventura, avete scritto questa parola nel senso ormai invalso dal 1960-61 nella politica italiana, nel senso cioè di parallele che si incontrano, allora, onorevoli Bubbico e Marzotto Caotorta, la Corte costituzionale ha marciato in un senso e voi in quello opposto. C’è ancora qualche altra cosa interessante nella vostra relazione. Voi parlate e ne avete tutto il diritto delle opposizioni che si sono manifestate contro questa riforma, e così vi esprimete a pagina 6: «Sembra quasi che una certa sfiducia nel sistema dei partiti unisse forze imprenditoriali, movimenti extraparlamentari, partiti di destra nel tentativo estremo di “liberalizzare” la televisione». Insomma, voi ritenete che il tentativo di liberalizzare (anche se la scrivete tra virgolette, la parola ha un suo significato non oppugnabile) sia un tentativo colpevole, nel quale si sono associati dei complici, che voi indicate nelle forze imprenditoriali, nei gruppi extraparlamentari e nei partiti di destra. Io non ho il diritto di chiedere una spiegazione, che vi deve chiedere invece l’onorevole Malagodi. Tra i partiti di destra questa volta avete messo anche il suo! Penso che il Partito liberale dovrà tener conto in questa fase, nel momento in cui entra nel consiglio d’amministrazione, di questo vostro giudizio che lo accomuna a noi (passi: ne siamo onorati), che lo accomuna a gruppi imprenditoriali e a movimenti extraparlamentari. Penso che alludiate a movimenti extraparlamentari di sinistra, perché io non conosco movimenti extraparlamentari dì destra che si occupino di questi problemi. Mandano messaggi, e non credo che facciano gran che di diverso. Ho chiesto lo scioglimento di tutti i movimenti extraparlamentari, e almeno in questo penso di essere inteso con semplicità e con chiarezza! Secondo i relatori di questa legge di regime, di questa importantissima riforma, quindi di un testo che ha un’importanza non dico storica, ma parlamentare di primo piano, vi è un’alleanza fra gruppi imprenditoriali (chi volete intendere: Agnelli, Cefis, Girotti, Marzotto, lo scià di Persia?), i movimenti extraparlamentari, la destra nazionale, il Partito liberale) per liberalizzare il servizio radiotelevisivo. Vorrei sapere per quale ragione dovrebbero esservi alleanze di questo genere, quando si tratta evidentemente di un dibattito che interessa tutti i cittadini italiani, tra i quali potranno anche esservi coloro che preferiscono il monopolio di Stato, ma tra i quali sono assai numerosi coloro che gradirebbero avere in casa propria una scelta tra diverse reti televisive, tra quella di Stato e quelle liberalizzate o libere.
Si aggiunge: «Il mantenimento del monopolio in una società come la nostra non appare certo come strumento di coercizione nei confronti delle minoranze, ma di tutela e di garanzia per la libertà di espressione di tutti, specie dinanzi ad un quadro economico e sociale ove le soluzioni alternative non potrebbero necessariamente emergere e coagularsi, se non attorno a concentrazioni di capitalismo avanzato». Qui siamo al marxismo, onorevoli Bubbico e Marzotto Caotorta! Questa è una interpretazione marxista non della società italiana come essa è (perché i marxisti, che sono normalmente seri, anche se arcaici forse seri perché arcaici ne darebbero una interpretazione più approfondita, meno abborracciata), ma è una interpretazione marxista per quanto attiene alla concezione dei rapporti sociali, economici, politici e democratici in una qualsiasi società! Che significa affermare che nell’attuale società italiana le soluzioni alternative, cioè televisioni in concorrenza, non potrebbero emergere e coagularsi se non attorno a concentrazioni di capitalismo avanzato? Il solito Fracanzani ce lo dovrebbe spiegare! Che cosa significa? Che per costruire impianti televisivi occorrerebbero concentrazioni capitalistiche? Forse che anche la vostra non è una concentrazione capitalistica, con i capitali dei cittadini? Nel momento in cui si sostiene il capitalismo di Stato contro l’economia libera e soprattutto sì sostiene il capitalismo di Stato contro l’economia libera in ordine ai problemi della informazione e della formazione culturale, siamo al marxismo, onorevoli Bubbico e Marzotto Caotorta! Siamo fuori di una qualsiasi riforma della RAI-TV che in un regime democratico possa essere discussa, accettata, respinta, gradita o no! Tocchiamo un problema che è persino più grave del grave problema della discriminazione, che ci interessa, che interessa milioni di cittadini fuori di qui e ancora di più ne interesserà.
Forse l’avete scritta con la mano sinistra questa relazione. Non voglio recarvi offesa, poiché forse l’avete scritta senza rendervi conto di quello che scrivevate. Ve ne voglio dare la prova attraverso un altro passo della relazione, dove si parla della libertà di manifestazione del pensiero affermando: «In questa prospettiva si è sostenuto nella più recente dottrina che i termini del problema vanno invertiti, attribuendo rilevanza prevalente alla collettività nella acquisizione delle notizie, con conseguente funzionalizzazione della situazione dei soggetti che provvedono a diffondere le medesime». Si afferma, quindi, che l’acquisizione delle notizie e la loro diffusione rappresentano un interesse della collettività e funzionalizzano, al servizio della collettività, i soggetti che provvedono a diffonderle. Si tratta dei giornalisti della RAI-TV. In tal senso vengono totalmente ignorati gli oggetti non chiamiamoli soggetti che hanno diritto alla ricezione e anche alla presentazione delle informazioni stesse.
A questo punto, non siamo solo al marxismo, ma siamo a qualcosa di più. Voi, infatti, avete già realizzato attraverso passi simili non so se ve ne siete resi conto un marxismo che si spinge più in là di quello attuato in alcune parti del mondo. Attraverso alcun nostre frasi voi siete arrivati a quello Stato perfetto, non più esistente, vaticinato da Lenin nei suoi testi; siete al marxismo stalinista postsovietico; siete arrivati ad una società in cui non esiste il senso della collettività e nella quale i destinatari delle informazioni non sono nemmeno ipotizzati come oggetti. Da parte vostra non si è discusso nemmeno se i cittadini abbiano il diritto di essere informati…. “
BUBBICO: “Mi riservo di risponderle dopo, in sede di replica, onorevole Almirante.”
ALMIRANTE: “Ne sono lieto, onorevole Bubbico. Siamo qui proprio per stimolare i chiarimenti. Tuttavia ad una lettura attenta e deferente dei vostri testi infatti io non ho voluto parlare senza tenere conto delle vostre tesi mi sono trovato, non senza sorpresa, di fronte a tesi che vanno oltre quello che perfino un relatore comunista avrebbe avanzato per difendere questo decreto-legge. Infatti non mi sembra assolutamente necessario abolire la categoria dei cittadini anche come oggetti. Non è pensabile quanto voi sostenete qui: che cioè quello che voi affermate è sostenuto anche dalla più recente dottrina. Spero, onorevole Bubbico, che ella avrà la cortesia di citare in sede di replica i testi cui vi riferite. Saremo lieti di conoscere qual è la «più recente dottrina» che stabilisce che le parti si sono invertite e che è la collettività stessa che deve captare e trasmettere le informazioni. Tutto finisce, quindi, in questa funzionalità della collettività che, attraverso i suoi soggetti, trasmette le informazioni ad una massa inerte, addirittura inesistente di cittadini.
In Russia vi è il dissenso: vi è per essere mandato in Siberia, e vi è anche per far filtrare la sua voce. Quindi neppure nell’Unione Sovietica, neppure in Cina tutto è funzionalizzato fino al punto da negare la funzione del cittadino, il quale deve essere informato, formato, deve poter prendere la parola, essere rappresentato e avere quel diritto di accesso che a parole voi concedete attraverso questa legge, ma poi negate nei fatti a parti cospicue della rappresentanza politica e sociale del nostro paese. Infine (non desidero ripetere quanto detto ieri) alle sentenze n. 225 e n. 226 della Corte costituzionale avete risposto, mediante questo decreto-legge, con posizioni come quelle che ora ho indicato, con norme di legge che rappresentano un passo indietro rispetto al disegno di legge Togni. L’onorevole Roberti lo ha dimostrato: nella nostra relazione di minoranza, per la quale ringrazio l’amico onorevole Baghino, si attesta che dopo le due succitate sentenze la maggioranza ha ripreso per intero il disegno di legge Togni che precedeva quelle sentenze; e, quando lo ha modificato in ordine ai problemi della libertà, lo ha modificato in peggio.
Quando, all’inizio di questo mio intervento, ho affermato che l’«arco costituzionale» ha voltato le spalle alla Corte costituzionale, mi sono riferito non soltanto a posizioni di principio, ma anche a posizione legislative di cui vi siete assunta la responsabilità. Ciò premesso, sono costretto a questo punto a pronunciare una brutta parola non inventata da noi: lottizzazione. Da molti anni si parla di lottizzazione a proposito della RAI-TV. Il fatto che questo vocabolo sia stato adeguato alla realtà dell’informazione radiotelevisiva presenta contenuti morali che indubbiamente non vi sfuggono. Vogliamo rapidamente rinverdire la storia della lottizzazione, per renderci conto delle ragioni e dei modi con cui si è giunti al punto in cui siamo? Non è difficile. Per cominciare correttamente, mi riferisco all’intervento svolto dall’onorevole Delfino il 28 maggio 1969, nel corso di uno dei tanti dibattiti sulla riforma della RAI-TV. Il nostro collega fece un’osservazione obiettiva cui nessuno ebbe modo di replicare: se esaminate la convenzione tra lo Stato (Ministero delle poste) e l’ente radiofonico, relativamente al 1952, e consultate la convenzione tra lo Stato (Ministero delle comunicazioni) e l’EIAR del 1927, vi accorgete che le due convenzioni si assomigliano in maniera impressionante. La storia, ecco, è cominciata con la proroga di una norma fascista dal 1952 al 1972, secondo la convenzione, e dal 1972 al 1974-75, secondo ulteriori provvedimenti. Io non me ne impressiono, anche se taluno se ne è impressionato. Qualcuno si è impressionato quando il procuratore generale della Cassazione, dottor Colli, giorni fa, ha rilevato l’identica cosa a proposito dei codici in vigore da circa trent’anni a questa parte, salvo alcune modificazioni. È interessante rilevare che anche la storia della convenzione tra lo Stato e l’ente radiofonico, la storia del monopolio e della concezione monopolistica, è cominciata da dove ho detto, ed è continuata tranquillamente nel corso di un trentennio. Non mi scandalizzo, e non me ne diverto: tutt’altro. Infatti non è divertente assistere a simili contraffazioni, denunciare simili manchevolezze, nel quadro di una polemica che vede la nostra parte accusata da voi di tenere perennemente gli occhi rivolti al passato. Sono costretto a rivolgere gli occhi al passato proprio per la vostra incapacità di guardare nel presente e verso l’avvenire. Ancora una volta combattiamo battaglie di avanguardia mentre voi continuate a combattere squallide battaglie di retroguardia. La storia è cominciata così.
E come è continuata? È continuata nel solito modo, cioè inserendo nella persistente logica di norme di un regime totalitario i comodi di un regime democratico. Ecco, il regime totalitario ha mantenuto, anche a questo riguardo, le sue strutture iniziali; per 22 anni una convenzione fascista è rimasta in piedi e ha regolato i rapporti delicatissimi fra lo Stato ed i mezzi di informazione radiotelevisivi. Però, in questo giaciglio, non si sono accomodati, evidentemente, i gerarchi del vecchio regime, bensì i gerarchi, i manutengoli, i clienti, i prosseneti del nuovo regime. Questa è la realtà! La lottizzazione è questa: la torta è rimasta lì, l’avete tenuta in frigorifero voi che parlate di frigorifero nei nostri riguardi e ogni tanto ne avete tirato fuori una fettina per aggiudicarla a questo o a quel cliente. Niente di strano, per carità, niente di scandaloso, tranne il fatto che di volta in volta, a seconda del costituirsi o del dissolversi dell’una o dell’altra maggioranza, sono diventati «Catoni censori» i profittatori di ieri e sono diventati profittatori di oggi i «Catoni censori» di ieri. Non credo di essere indiscreto se dico che, prima dell’inizio di questa seduta, ho avuto spero di non nuocergli un breve e cordiale colloquio con un parlamentare comunista di tutto rilievo (ora non è più deputato: lo hanno punito), l’onorevole Lajolo, che io ricordo come uno dei primi e più intelligenti colleghi che si siano occupati di questi problemi quando entrambi facevamo parte della Commissione interni di questo ramo del Parlamento (poi passammo insieme alla Commissione affari costituzionali). Fra le mie carte ho trovato un intervento dell’onorevole Lajolo del 28 maggio 1969 nel quale egli malinconicamente diceva: «Ebbene, il Partito repubblicano ha fatto queste due proposte, valide, nell’unico momento in cui è stato lontano dal Governo. Quando si sentiva all’opposizione ha presentato la proposta di legge e ha chiesto l’inchiesta parlamentare, ma non appena è andato al Governo ha imitato il Partito socialista non dando più seguito a quelle proposte, che sono scomparse dalla circolazione». Ebbene sono passati quasi sei anni è scomparso dalla circolazione, come parlamentare, l’onorevole Lajolo, il Partito comunista è entrato praticamente nella maggioranza e tiene bordone al Partito repubblicano che è entrato nel Governo e agli altri partiti che nel Governo o nella maggioranza sono entrati o sono rimasti. Fra qualche settimana, o qualche mese, qualcuno dei soci di Governo si distaccherà, ricominceranno le geremiadi delle denunce e degli scandali delle lottizzazioni, vi riunirete e concederete qualche altro posticino. Qualcuno dell’onorevole Paolicchi non si parla più annuncerà clamorose dimissioni (che non darà, perché fino ad oggi non abbiamo avuto seguito al riguardo), dimissioni relative, fra l’altro, alla SIPRA (un ente ancor più «mangereccio» di quanto non sia la stessa RAI-TV), e poi, dopo qualche articoletto o corsivetto sui giornali, ci sarà qualche promozione a sottosegretario o a ministro, visto che lo abbiamo udito ieri in quest’aula un sottosegretario può, anche come funzionario di Governo, continuare ad assolvere le sue funzioni pur se la Camera ha concesso, per peculato, l’autorizzazione a procedere a suo carico..
Questa della polemica sulle lottizzazioni è una storia malinconica: ed io ne ho ricavato soltanto qualche fioretto, qualche piccolo stralcio, tanto per distendere, a modo mio, l’ atmosfera.Ad esempio,io ebbi l’onore di conoscere, proprio alla televisione (mi pare due anni fa),una persona,divenuta poi parlamentare repubblicano, l’ onorevole Bogi, il quale forse, fra tutti i parlamentari, è quello che ha dimostrato maggiore interesse per la riforma al nostro esame. Egli se ne è occupato con indubbia competenza, per aver fatto parte, per fare tuttora parte, dello staff dirigenziale della RAI-TV.Anche l’ onorevole Bogi, in un recente passato si è concesso qualche licenza.Per esempio, quando ha preso parte ad un convegno del Partito comunista a Roma- marzo 1973- sui problemi della riforma della RAI-TV, ed ai comunisti (state a sentire, onorevoli collegi,perché è veramente un pezzo impagabile e rilevante) ha detto: Stiamo attenti tutti!La Democrazia cristiana ora, formalmente, è sulla posizione di difesa del privilegio di potere riservato all’ esecutivo. E’ una posizione battuta. La Democrazia cristiana ha, secondo me, un secondo disegno: ed è quello della caduta sul ParlamentoÖCioè, diceva Bogi nel marzo del 1973, la Democrazia cristiana farà finta di togliere all’ esecutivo i controlli sulla RAI- TV per portali al Parlamento, rientrando così dalla finestra poiché gli uomini sono sempre quelli, perché di partiti si tratta, perché quello è il partito che conta, perché è il partito che comanda, tanto a livello di Parlamento quanto di esecutivo. State attenti, dunque, diceva l’onorevole Bogi: la Democrazia cristiana ha un secondo disegno, quello della caduta sul Parlamento! State accorti, amici comunisti, egli ripeteva. (Sai come ridevano tra di loro i comunisti, quando l’onorevole Bogi diceva di stare attenti alla Democrazia cristiana, di stare attenti che il loro progetto non fosse magari quello della Democrazia cristiana? Ma guarda!) «…perché un Parlamento continuo nella lettura che abbia il ruolo di tutela verso il servizio radiotelevisivo, che eserciti il doppio ruolo di direttiva e di vigilanza, non sia poi in definitiva l’obiettivo di un grande partito, quantitativamente presente in maniera pesante nel paese, che è la Democrazia cristiana. Stiamo attenti, cioè, ad impostare una lotta che la DC non possa accettare in partenza; perché, se può accettare la spartizione sulla base dei tre quinti» ma guarda, l’onorevole Bogi sapeva già dei tre quinti…. «o sulla ripartizione dei seggi regionali», sapeva anche questo nel marzo del 1973 «allora la nostra battaglia, al di là del clamore, è una battaglia perduta». Onorevoli colleghi, nei fatti, voi siete destinati a fare i comprimari. Il gioco grosso è quello tra democristiani e comunisti. È evidente! Salvo a vedere prognosi riservata chi soccomberà. Salvo, evidentemente, a rendersi conto delle future relazioni ufficiali «fracanzanee» che ci troveremo dinanzi. Questo, però, è il gioco.
Ai liberali, che ancora una volta desidero ringraziare, dal nostro punto di vista, per l’atteggiamento che almeno ieri hanno tenuto, mi permetto di dire: state attenti anche voi! Quando vi capitò, infatti, di poter inserire un vostro rappresentante, un uomo molto qualificato, fra l’altro non di partito, ma un giornalista che tutte le correnti di opinione giudicano egregio e valido, pur contrastandolo e combattendolo magari, vi ricordate come fu trattato? Forse non vi torna in mente che, nella seduta del 6 febbraio 1973, l’onorevole Donat-Cattin in quest’aula così si espresse a proposito dell’inserimento di Enrico Mattei al vertice della TV: «Inutile sgarbo nei confronti dei socialisti…; immissione nel comitato direttivo di un giornalista specializzato nella calunnia politica verso uomini e partiti che non riscuotono la sua simpatia, e che può soltanto rappresentare un malinconico decentramento culturale del Partito liberale». Questo è il modo con cui personaggi a livello di Governo si permettono di parlare di problemi relativi alla libertà di informazione e alla libertà di giudizio da parte dei giornalisti. Ripeto che mi sono limitato a cogliere fior da fiore, per farvi rilevare l’ ho già fatto precedentemente, a proposito della Corte costituzionale alcune cose sulla stampa quotidiana italiana. Ho già notato con soddisfazione che questa mattina almeno una parte dei quotidiani che di solito ignorano le nostre tesi si sono dichiarati o approssimativamente o abbastanza apertamente in nostro favore. Tenete presente, signori del Governo e della maggioranza del regime, che la stampa italiana, quotidiana e periodica, è molto interessata a questi problemi; e che, per quanto essa possa essere ammorbidita per i noti e arcinoti sistemi di cui un regime si serve per ammorbidire la stampa, oltre un certo ammorbidimento non si potrà andare. Non voglio farvi perder tempo, ma debbo ricordarvi che di recente un giornale, non certamente nostro amico, il Corriere della sera, ha pubblicato cose assai dure a proposito di questa riforma. Ho sotto gli occhi una copia del Corriere della sera del 30 novembre 1974, dove si può leggere: «A questo criterio, il criterio che informa la riforma, bisogna opporsi con nettezza. La nostra opinione è che il paese, al contrario di quanto si vuol far credere, ha mostrato in varie occasioni di essere maturo per autonomia di giudizio e quindi per l’esercizio della libertà».Un giornale ancora più lontano dalla nostra parte, La Stampa di Torino, si è poi espresso molto duramente sul conto della riforma e, in particolare, a proposito del sistema del doppio telegiornale e del triplo giornale-radio.
Tenete presente che vi è un movimento di stampa e un movimento di opinione che non riuscirete a fermare. Anche in relazione ad un’osservazione fatta abbastanza recentemente, il 24 gennaio 1974, da un valoroso parlamentare liberale, il senatore Valitutti, il quale, parlando della riforma della RAI-TV, osservava che l’Italia è forse il solo paese con libere istituzioni e fondato sul pluralismo politico, in cui il monopolio del mezzo tecnico televisivo si congiunga al monopolio della formazione di programmi senza limiti e senza attenuazioni. Persino nella Francia, tradizionalmente accentratrice, il duplice monopolio televisivo, tecnico e culturale, è meno compatto e meno monolitico di quello italiano. E ha citato la Francia come caso-limite, perché negli altri paesi liberi dell’occidente il problema non si pone addirittura, o si pone in termini attenuati anche rispetto alla situazione francese.
Che cosa intendo dire? Intendo dire che, quando si agitano campagne di stampa contro questa riforma, esse non sono mosse e non sono riconducibili soltanto a quelli che voi definite interessi, che d’altra parte sono interessi perfettamente legittimi; non sono riconducibili alla legittima o non legittima riserva allo Stato ai sensi dell’articolo 43 della Costituzione; non sono riconducibili alla gestione di potere in termini economici. Sono riconducibili alla gestione del potere, in questo caso, in termini di valutazione e lievitazione di programmi. È questo il nodo. E a questo nodo la Corte costituzionale ha tentato di dare una misura o per lo meno una possibilità di scioglimento. Il regime a questo riguardo si è irrigidito; noi riteniamo ancora che abbiate commesso un gravissimo errore. Ho parlato delle responsabilità dei vari partiti politici; consentitemi di riferirmi in particolare (questa non è né una rivalsa né una vendetta, ma un legittimo esercizio di critica politica) a due fra i partiti del cosiddetto «arco costituzionale», il Partito socialista e il Partito comunista, dei quali, sempre per rapidi accenni, vorrei esaminare un momento le posizioni assunte nel corso di questi anni.
Comincio con un fiorellino. Vi dirò subito dopo chi è stato ad esprimersi in questo modo alla Camera, nella seduta del 23 maggio 1969. Cito tra virgolette: «Se mi si consente l’espressione, del tutto paradossale, direi che dovremmo dar vita ad una sorta di “magistratura della verità”, per quanto riguarda la televisione, la cui nomina potrebbe avvenire con i criteri non dirò uguali, ma analoghi, che in un campo più alto e più generale, vengono usati per la Corte costituzionale». Chi lo ha detto? Un uomo della destra nazionale? Un liberale? Un democristiano di destra? Lo ha detto l’onorevole Bertoldi (è un fiorellino!). Il 23 maggio 1969 l’onorevole Bertoldi si è svegliato ed è venuto qui per dire che alla televisione avrebbe dovuto esservi una «magistratura della verità», con guarentigie addirittura! simili a quelle che presiedono alla formazione della Corte costituzionale. Perché l’onorevole Bertoldi si esprimeva in quella guisa? Evidentemente perché la ragione politica generale, il 23 maggio del 1969, lo collocava in un quadro esterno al regime dominante la RAI-TV, e quindi in una posizione di onestà intellettuale.
Ritroviamo l’onorevole Bertoldi, a non molta distanza di tempo, il 6 febbraio del 1973, in quest’aula. Sono passati tre anni e mezzo: vediamo che cosa dice il Bertoldi «edizione 1973». Questo Bertoldi non si presenta più come un sacerdote della magistratura della verità, ma si presenta come un frate penitente (sono due fra gli atteggiamenti tipici dei socialisti nostrani), e dice: «Non ho alcuna difficoltà ad ammettere che la direzione del nostro partito può avere anche seguito la vicenda della RAI con scarsa attenzione in passato; è un’autocritica che riguarda anche me stesso, perché sono da molti anni membro della direzione e della segreteria del PSI. Probabilmente, non abbiamo seguito con sufficiente attenzione quello che avveniva all’interno e al vertice della RAI-TV; non abbiamo avuto il tempo, dati i frangenti, di approfondire un problema che stava marcendo, che è marcito ed oggi è esploso». Ci si era seduto sopra, l’onorevole Bertoldi, quale frate predicante, e quale frate penitente aveva sentito lo scoppio, per fortuna restando illeso nelle parti sedenti, perché le parti raziocinanti non avevano avuto il tempo di occuparsi e neppure di accorgersi di quello che era accaduto. E aggiungeva: «Per quanto riguarda la permanenza di Paolicchi alla SIPRA» perché nemmeno di questo, stando seduto, egli si era accorto «vorrei comunicare all’onorevole Galluzzi» Bertoldi era infatti penitente al cospetto dei comunisti, non al cospetto della propria coscienza, o del proprio partito, o del Governo, o della maggioranza: i comunisti, come ora vedremo, gli avevano tirato le orecchie «vorrei comunicare all’onorevole Galluzzi» diceva l’onorevole Bertoldi «e anche al Presidente del Consiglio» per carità, prima all’onorevole Galluzzi, e poi anche al Presidente del Consiglio! «che il collega Paolicchi si dimetterà anche da amministratore delegato della SIPRA, perché tale carica è collegata con quella di amministratore delegato della RAI o, per lo meno, in via di prassi, è collegata nella stessa persona, e le dimissioni da amministratore delegato dell’ente comportano anche le dimissioni dalla SIPRA».
Ora, io credo di non sbagliare dicendo che l’onorevole Bertoldi, come frate penitente, diceva il falso, in quanto l’onorevole Paolicchi non si era affatto dimesso, e non si è dimesso neppure successivamente da amministratore delegato della SIPRA; e quindi, oltre tutto, c’è anche questo. Ma quello dell’onorevole Bertoldi non è un caso isolato: queste sono le posizioni tipiche del Partito socialista, della classe dirigente del Partito socialista, che talvolta è fuori del Governo, oppure vuol far cadere il Governo: ed allora ecco le posizioni di santità, le «magistrature della verità», la democrazia (sempre dando un’occhiata complice al Partito comunista, per sentire quali siano il suo avviso e il suo indirizzo). Quando, poi, i socialisti rientrano, si siedono, e allora sono occupati, sono occupati nel sedere, non possono vedere quel che capita intorno, e neppure quello che capita sotto. Marcisce tutto? Marcisca pure, ma immarcescibile rimanga la faccia tosta dei dirigenti del Partito socialista, che riprendono immediatamente a predicare, annunziano le dimissioni di chi non si dimette, la fine di una mangeria che continua ed incalza. E poi, avanti, verso la nuova riforma: ci sono i posti? Sì, ed allora tre posti al Partito socialista, e due al Partito comunista. Sono quei tali posti che consentono di determinare una maggioranza in occasione della votazione del bilancio, che è l’unica cosa che conti in quel consiglio di amministrazione. Siamo a posto, tutto va bene. Ed anzi, i «missini» osano fare l’ostruzionismo? Si convochi la Giunta per il regolamento, perché i «missini», nemmeno alla Camera, debbono poter parlare troppo di questi così troppo delicati argomenti. Eccolo il Partito socialista, nelle sue vere espressioni e manifestazioni di potere. “
PRESIDENTE: “Onorevole Almirante, desidero precisare che non è stata convocata la Giunta per il regolamento. “
ALMIRANTE: “La ringrazio molto, signor Presidente, di questa precisazione; e colgo il significato di questa sua cortese interruzione. La ringrazio moltissimo. “
( Applausi a destra).
PRESIDENTE: “È una constatazione che non merita l’applauso. “
ALMIRANTE: “Signor Presidente, se me lo consente, anche riferendomi ad antichi, ma non dimenticati, nobili episodi di comportamento della Presidenza, questo merita l’applauso di un deputato e di un uomo libero. Nient’altro che questo: credo che questo non manchi di buon gusto e sia opportuno. Se queste, non rampogne per carità, non ne ho l’autorità ma constatazioni e considerazioni di fronte ai modi di comportamento di certa parte della classe dirigente del Partito socialista provenissero soltanto da noi, avrebbero un valore polemico, e magari di documentazione, ma non di più. Ma tali richiami vengono da sinistra. Il Mondo, il giornale radicale che non è molto contento di questa riforma per determinati motivi, che fanno parte della logica del fronte o del frontismo di sinistra, non ha esitato a scrivere, il 9 maggio 1974, che «i socialisti su questo problema della RAI-TV hanno dato pessima prova»; ed ha aggiunto: «quando il loro rappresentante in seno alla RAI-TV, lo scrittore Giorgio Bassani, fu invitato a dare le dimissioni per lasciare il posto a Luciano Paolicchi, venne affermato che l’avvicendamento era dovuto a ragioni molto precise: si trattava di introdurre nella roccaforte un elemento politico che sapesse combattere dall’interno per la riforma del sistema». Ecco le cure culturali, intellettuali della sinistra socialista; lo scrittore Bassani non si dirà certamente che io difendo una causa nostra: per altro si tratta di un uomo di tutto riguardo deve lasciare il posto all’uomo di partito, ad uno che veda, che non si lasci imbrogliare. L’uomo di partito «vede» nel modo che abbiamo potuto constatare, e lo riducono al punto che l’opinione pubblica e il Partito comunista gli chiedono di andarsene; non se ne va egualmente, e il suo partito afferma il falso dicendo in piena aula che si è dimesso. Mi sembra che questo sia per il Partito socialista un patrimonio di credibilità davvero ragguardevole! E perché come dicevo poco fa l’oratore socialista si riferiva al Partito comunista e precisamente all’onorevole Galluzzi, prima ancora che al Presidente del Consiglio? Perché l’onorevole Galluzzi, a nome del Partito comunista, non era stato certo molto tenero nei confronti dei socialisti e dei loro modi di comportamento; ora che filate il perfetto amore, è bene che queste cose si dicano, anche perché potrà capitare che qualche socialista integro ce ne sarà qualcuno dica oggi o domani ai comunisti quello che i comunisti si sono divertiti a dire ai socialisti nei periodi in cui non erano ancora d’accordo nello spartirsi la torta. L’onorevole Galluzzi parlò duramente nei confronti dei socialisti a proposito della RAI-TV in almeno due occasioni, il 6 maggio 1971 e il 13 dicembre 1972. Dico duramente, perché ascoltate bene disse: «La realtà è che i compagni socialisti alla RAI-TV non hanno saputo in alcun modo caratterizzare, al di là delle affermazioni verbali, il loro ingresso ai vertici dell’azienda nel senso di spingere avanti un profondo rinnovamento dei metodi e degli indirizzi, ed hanno finito per ricadere nel gioco di potere, per subire, accettando di rinchiudersi nella gabbia del quadripartito» una gabbia dorata! «della politica di regime, finendo così per accettare la prevalenza ed il dominio del partito più forte». E ancora. Il 13 dicembre 1972 i comunisti dicevano: «Abbiamo preso atto che vi siete resi conto, voi socialisti, che la politica del condizionamento all’interno è finita e si è tradotta in una copertura delle scelte della Democrazia cristiana e dei suoi diretti rappresentanti al vertice dell’azienda». Ora siete tutti quanti insieme ed è evidente che il discorso cambia, tanto è vero che lo stesso settimanale radicale che citavo poco fa, e che critica così apertamente le posizioni e le responsabilità del Partito socialista, mette in luce anche le posizioni e le responsabilità del Partito comunista.
Vorrei occuparmi di questo argomento, perché mi sembra che, politicamente, sia l’argomento di fondo. Vorrei cioè aiutare me stesso a comprendere quali sono le contropartite reali, i motivi di fondo, le spinte (come dice il Fracanzani) che hanno suggerito al Partito comunista di tenere un atteggiamento che è di copertura e di appoggio (non voglio neppure dire di complicità) verso una riforma in favore della quale noi non sappiamo ancora se il Partito comunista arriverà ufficialmente a pronunciarsi e a votare, soprattutto se verrà posta, come potrebbe darsi, la fiducia da parte dell’onorevole Presidente del Consiglio. Io sono rispettoso delle posizioni altrui soprattutto quando tali posizioni vengono assunte apertamente. Non penso quindi che il Partito comunista sia entrato nell’ ordine di idee di favorire il passaggio (e addirittura il rapido passaggio) di questa riforma soltanto per l’offerta dei due posti nel consiglio di amministrazione. Certo, queste sono cose che hanno il loro peso e la loro importanza. Ma, come per noi (se permettete, gente seria) hanno peso e importanza fino a un certo punto, possono cioè pesare e certamente pesano in relazione ai modi di comportamento, ai modi di sviluppare una opposizione, ai modi di portare l’opposizione fino all’ostruzionismo, ma non fino al punto di annebbiare le nostre idee sul quadro generale della riforma, così io non posso permettermi di pensare che il Partito comunista un partito serio -ritenga che due o tre posti possano modificare il suo giudizio di fondo sul conto di questa riforma. Anche perché è un giudizio che il Partito comunista, come ogni altro, sarà chiamato d’ora in poi a portare dinanzi alla pubblica opinione per chiarirlo, per giustificarlo. Questo non è un problema sul quale non si possano e non si debbano fare i conti ogni giorno con la pubblica opinione. la RAI-TV del regime, così come la detesta il «missino», e che si sentirà dire nei prossimi giorni che il suo partito è stato favorevole a questa riforma, vorrà pure dei chiarimenti: potranno i colleghi comunisti andare a raccontare che hanno avuto due posti? Certamente, no. Ci vuole qualcosa di più. Vediamo ora di capire di che cosa si tratta, attraverso i testi dello stesso Partito comunista o in genere i testi della sinistra che ho cercato di consultare.
Diceva ancora Il Mondo, dando una prima interpretazione, il 9 maggio 1974: «Nella sostanza» (ci si riferiva al disegno di legge Togni, che però conteneva, grosso modo, per quanto riguarda la televisione via etere, tutte le norme contenute in questo decreto) «il PCI ha avuto soddisfazione su almeno tre punti: ha visto l’accesso al video assicurato alle regioni, il che gli permetterà di compensare altri squilibri; è stata confermata l’esclusione dal mezzo radiotelevisivo dei raggruppamenti politici che non hanno rappresentanza parlamentare, come per esempio gli odiati radicali; il PCI, infine, farà parte, con i suoi rappresentanti, del nuovo comitato nazionale per la radiotelevisione e con ciò partecipa anch’esso alla lottizzazione, negandosi così come forza di opposizione». I radicali individuano così tre motivi del soddisfacimento, o parziale soddisfacimento, comunista: l’accesso delle regioni, l’esclusione al vertice dei partiti non rappresentati in Parlamento, l’ingresso nella lottizzazione (negandosi così il Partito comunista come partito di opposizione).
Le regioni. Penso che i comunisti ne parleranno e ne parleranno anche altri, se interverranno in questo dibattito. Io non vorrei sembrare a questo riguardo né irriverente nei confronti di una realtà che c’è, che abbiamo combattuto prima del suo sorgere ma che indubbiamente esiste, né dimentico del peso che questa realtà obiettivamente può avere. Ma, quando nel quadro istituzionale di questa riforma ci si riferisce alle regioni, allora non facciamo ridere!, perché non ci si riferisce alle regioni, ma ci si riferisce ai designati da ciascun consiglio regionale per entrare a far parte degli organi dirigenziali della RAI-TV; designati i quali altro non sono se non i rappresentanti dei vari gruppi politici, secondo i numerini stabiliti nel protocollo aggiuntivo e negli accordi più o meno segreti. Non facciamo quindi ridere e non ci si venga a dire che entrano le regioni. No, entrerà, in rappresentanza della regione Emilia, il mio vecchio amico e commilitone di Repubblica sociale, oggi presidente della regione Emilia – Romagna, avvocato Guido Fanti, nella sua qualità di tesserato al Partito comunista italiano. Non penso proprio che la voce di Guido Fanti, in quanto rappresentante della regione, sarà molto diversa dalla voce dell’onorevole Napolitano o dell’onorevole Galluzzi che vi entrano in quanto membri del Parlamento. Questa storia secondo cui il Partito comunista avrebbe vinto una grande battaglia perché entrano le regioni, andatela a raccontare a qualcun’altro, non a noi, perché non ha grande rilievo. Questo è semplicemente il coro dell’Aida. Entrano i sindacati, voi direte che hanno ottenuto un’altra grande vittoria perché entra la «triplice», entrano i lavoratori. Perché, il dottor Lama è «i lavoratori»? Il dottor Lama è un iscritto al Partito comunista, ed è la cinghia di trasmissione di una volontà politica: con intelligenza, con capacità, con bravura, con bonomia che nessuno gli vuole negare, anche se sono trucchi che non incantano più nessuno.
Non venite a raccontare che avete aperto alle forze culturali. Ma come? Quando si è tentato, nel corso dell’elaborazione di questa riforma, di fare posto alle rappresentanze culturali, ho letto nei testi sacri (Accademia dei Lincei, per carità, chi si permette di proporlo?), nei vostri testi non soltanto di sinistra, ma anche democristiani, essere assurdo che ci si riferisca agli enti culturali; e non ho letto che alcuno abbia scritto, per esempio: riferiamoci all’ordine dei giornalisti perché designi qualche giornalista come tale al vertice della RAI-TV per occuparsi dei programmi, del gradimento, della capacità di comunicare con la gente. Per carità, siano tutti degli asini bardati, purché rappresentanti dei partiti. Via coloro che possono contare qualche cosa intellettualmente, perché occorre la rappresentanza dei partiti. E poi andate a raccontare che il Partito comunista ritiene di aver vinto perché porta le regioni e i sindacati! Porta i suoi iscritti, per carità, degnissimi, che faranno il proprio dovere di iscritti al Partito comunista, che porteranno avanti la tesi partitocratica e di regime del Partito comunista, e questo è tutto. Che poi i comunisti abbiano fatto questa battaglia per escludere i radicali, lasciamolo sostenere ai radicali. Sono cose che fanno molto ridere, anche perché abbiamo visto che la relazione Bubbico e Marzotto Caotorta è più radicale che democristiana e quindi evidentemente i radicali, cacciati dalla porta, sono rientrati dalla finestra. Mentre è seria l’ultima considerazione, la sola seria: il Partito comunista, nel nuovo comitato, parteciperà alla lottizzazione negandosi così come forza di opposizione. Che le cose stiano in questo modo lo dimostra tutta la tattica del Partito comunista, il quale ha sempre combattuto e denunziato la lottizzazione finché la lottizzazione avveniva senza di esso. Entratone a far parte, ritiene che essa sia un dato positivo. Ma questo non è tutto. Per cercare di capire quale sia il vero atteggiamento del Partito comunista, credo si debbano mettere a confronto due testi ufficiali. Mi riferisco a Rinascita del 10 maggio 1974 e all ‘ U – nità del 2 dicembre 1974. Essi fanno riferimento, ufficialmente, al parere del Partito comunista in ordine alla riforma della RAI-TV. Rinascita si riferisce al testo del disegno di legge Togni, per intenderci, prima delle sentenze della Corte costituzionale, mentre l’Unità si riferisce al nuovo accordo dopo, nonostante e contro le sentenze della Corte costituzionale stessa. Non ho l’impressione che la stampa quotidiana italiana si sia soffermata su questi due testi e li abbia messi a confronto, perché la cosa sarebbe stata edificante: infatti, essi esprimono due pareri contrapposti.
Rinascita esprime il parere contrario del Partito comunista, riferendosi al progetto di legge Togni, mentre l’Unità esprime il parere quasi del tutto favorevole del Partito comunista, riferendosi ai successivi accordi. Se non vi fosse altro documento, il confronto fra questi due testi sarebbe sufficiente a dimostrare che siete potuti arrivare, nonostante e contro la Corte costituzionale, alla presentazione di questo disegno di legge solo perché il Partito comunista ha cambiato avviso.
Il Partito comunista, su Rinascita del 10 maggio 1974, spiegava i motivi della sua opposizione, e diceva: «Anzitutto viene mantenuto il rapporto Stato – società concessionaria, invece di risolvere il problema come era stato indicato non solo da noi, ma anche dai socialisti e da vasti settori democristiani, eliminando ogni equivoco, ogni scappatoia privatistica: dando cioè vita ad un ente di Stato». Questa tesi, che si dovesse e si debba dar vita ad un ente di Stato (i colleghi comunisti me ne possono dare atto) è stata sempre la tesi del Partito comunista in quest’aula da quando l’onorevole Lajolo, per primo, ebbe a presentare un apposito progetto di legge. Era, ancora fino al maggio del 1974, la tesi del Partito comunista, il quale criticava duramente ed era una critica preliminare e di fondo, di quelle che portano al «no» più netto e più rigido la possibilità che si dovesse persistere nell’equivoco nel quale, invece, si è voluto insistere. Aggiungeva ancora Rinascita: «Rilevavamo nella relazione presentata al nostro progetto di legge che l’ente non era per noi una semplice alternativa formale al Governo, che gestisce la RAI tramite l’ IRI, ma la fine della politica delle concessioni e delle gestioni di tipo privatistico in settori decisivi della vita dello Stato e insieme l’esigenza di un profondo rinnovamento strutturale e democratico della pubblica amministrazione».
Ora, i casi sono due: o il Partito comunista, nel corso di questo dibattito, riprende la tesi esposta su Rinascita del 10 maggio 1974 (e si tratta di una tesi, dal punto di vista comunista, del tutto legittima, non solo perché coerente con i precedenti indirizzi di tutto il dopoguerra, ma perché coerente con quelle più generali del Partito comunista), o, come sembra, il Partito comunista molla su questo punto e non ne fa un motivo ostativo ad un suo atteggiamento di sostanziale favore nei riguardi di questo disegno di legge. Ma allora che cosa significa tutto questo? Significa forse che il Partito comunista si accontenta perché ha due posti, oppure i tre quinti? No, certamente. Significa che il Partito comunista ritiene il passaggio di questa riforma in questi termini talmente importante e qualificante ai fini della marxistizzazione della società e quindi della marxistizzazione della informazione, e quindi della negazione della libertà e quindi della capacità di dominio o per lo meno di accentuata precisione del Partito comunista su tutta la società in tutti i sensi, da non dar più peso al particolare perché diventa a questo punto un trascurabile particolare della società privata o della mano pubblica. Questa è la realtà. Cioè di privato non c’è più nulla; il Partito comunista sa che non c’è più nulla perché è riuscito, attraverso la sua penetrazione politica, a contaminare tutto quel che di privato c’era.
Siamo alla favola di Mida in senso opposto: qui si trasforma in piombo, per cattive rotative, tutto quello che poteva brillare come oro. Questa è la realtà. Il Partito comunista si trova a suo agio nel quadro di questa riforma, perché questa è una riforma marxista, è la base per la riforma in senso marxista o per l’antiriforma in senso marxista di tutta la società italiana, il che costringe il Partito comunista a smentire se stesso, ma mette noi, soli, per vostra inedia, inerzia e mi permetto di dirlo per vostra viltà, nella condizione di denunziare il Partito comunista nello stato di flagrante contraddizione, di flagrante tradimento di quegli interessi che esso ha sempre detto di difendere. Ancora una volta, se non ci fosse la posizione chiarificatrice non ostruzionistica in senso gretto, chiarificatrice fino all’ostruzionismo della destra nazionale, queste tesi nessuno le metterebbe in luce. E vi assicuriamo, assicuriamo i comunisti che le metteremo in luce in ogni parte d’Italia. E torniamo ancora a Rinascita del 10 maggio 1974: «A questo punto compare nelle trattative di Governo il fantomatico “protocollo di gestione”, sottoscritto dai quattro partiti e interpretativo della legge. Che si sia dovuti ricorrere ad esso è indicativo delle carenze del provvedimento…». Io vorrei sapere, se il Partito comunista il 10 maggio 1974 riteneva illecito, vergognosamente illecito il metodo del protocollo di gestione, cioè della sostanza della legge approvata fuori del Parlamento, resa addirittura esecutiva fuori del Parlamento, senza che il Parlamento ne fosse o ne sia minimamente informato, come mai a distanza di meno di un anno, di pochi mesi, il Partito comunista non ne parla più, «glissa». Evidentemente questa volta il protocollo porta anche la sua firma. Siamo a questo punto: non soltanto più all’assemblearismo, all’appoggio, alla complicità, ai voti mendicati in corridoio e offerti in aula; qui siamo all’intesa extracostituzionale, anticostituzionale. Cioè l’«arco costituzionale» si realizza in quanto realizza fuori e contro la Costituzione, fuori della potestà e della vigilanza del Parlamento, le proprie intese ai danni della nazione.
Questa è la situazione in cui si è collocato o si sta collocando il Partito comunista. Continua infatti Rinascita del 10 maggio 1974, con parole che noi possiamo sottoscrivere, ma che i comunisti non possono ripetere più: «Tutta la parte gestionale è nel protocollo. Nel protocollo si parla di due reti e di due telegiornali; nel protocollo si assegnano anche le cariche direttive della RAI, presidente e direttore generale dei due programmi e dei due telegiornali. Dal protocollo apprendiamo che vi saranno un presidente socialista, un direttore generale democristiano, due direttori di reti e di telegiornali democristiano e socialista. Il cosiddetto pluralismo interno è dunque affidato al protocollo, è un accordo tra i quattro partiti e anch’esso, come nasce, così può finire. Ma neppure il protocollo, che formalmente il Parlamento «ignorerà» per fortuna ci siamo noi, altrimenti lo avrebbe ignorato! «chiarisce quale rapporto vi sarà tra il direttore generale e i direttori dei telegiornali. E dire che non chiarisce è già essere ottimisti. Il testo dice che il direttore generale coordina le varie proposte presentando un programma organico al consiglio di amministrazione, che le informazioni giornalistiche saranno fornite da due telegiornali, il direttore di ciascuno dei quali…» eccetera. Continua Rinascita: «Che significa tutto ciò? Che la piramide via via si restringe e che tutto il potere finisce nelle mani del direttore generale, anche se in parte è limitato dalle nuove strutture istituzionali e gestionali?».
E allora, comunisti, vi siete seduti sulla piramide o siete nascosti dentro la piramide, come quei cadaveri faraonici che neanche con i mezzi radar si riesce in questi tempi a individuare? Evidentemente questa piramide vi piace. Evidentemente avete mutato giudizio non essendo mutata la situazione, anzi essendo, come vi abbiamo dimostrato e come sapete benissimo, peggiorata, se è vero, come è vero, che l’Unità del 2 dicembre 1974, con firma Dario Valori, pubblica: «Siamo lieti che con senso di responsabilità altri partiti abbiano ritenuto di imboccare questa strada» (cioè la strada suggerita dai comunisti). «In tal modo, finalmente, la riforma della RAI-TV entra in una fase risolutiva per gli aspetti legislativi, e bisognerà riflettere sull’esperienza accumulata nel lungo cammino percorso, allargando sempre più lo schieramento politico» (che faccia tosta!) «e realizzando una significativa unità fra le regioni, i sindacati, gli operatori del mondo dell’informazione, i dipendenti della RAI-TV. Sulla sostanza degli accordi definiti tra i partiti di centro-sinistra, abbiamo già sottolineato come importanti proposte del movimento riformatore e del nostro stesso partito siano state recepite nel testo governativo». Ciò è falso: il testo governativo nel 1974-75 è peggiorato a confronto del testo governativo Togni; la Corte costituzionale è riuscita a determinare degli spiragli, delle aperture di libertà contro i precedenti avvisi del Partito comunista, il quale era contrario tanto alla libertà per la TV-cavo, quanto alla libertà per i ripetitori stranieri. Quindi, gli aspetti positivi per il Partito comunista sono ancor più negativi degli altri aspetti. Per il resto, si è istituita una gestione societaria, della quale parlerò tra poco, che l’IRI stesso dichiara di non accettare, e che è ancora peggiore della precedente. E, comunque sia, non si è giunti alla formula, auspicata logicamente dal Partito comunista, dell’ente pubblico. Il protocollo aggiuntivo è stato in tutte le sue parti rispettato, perfezionato e addirittura predisposto fuori del Parlamento, e il Partito comunista afferma: entrano le regioni (come ho accennato), entrano i sindacati (anche questo lo ho già detto: si tratta dei rappresentanti della CGIL, eccetera) e, pertanto, sono state accolte le proposte e possiamo guardare con soddisfazione a questa bella riforma.
Non credevo che il Partito comunista si potesse avvilire e ridurre a tanto. Avevate già a vostra disposizione tanta parte della RAI-TV! Perché vendere il vostro prestigio di Partito serio per il piatto di lenticchie di due o tre rappresentanti, i quali credetemi si metteranno a mangiare insieme con gli altri e forse sono già a tavola. Forse nel protocollo aggiuntivo è inserito anche qualche accordo preventivo per spartizioni di torta. Francamente, il vostro atteggiamento non può che lasciare perplessi.
Ho accennato pochi istanti fa alla questione IRI, che, come sapete, è di grande rilievo. Non so se sia vera la notizia che circola, secondo la quale il presidente Petrilli avrebbe scritto in proposito una pesante lettera al Presidente del Consiglio. Qualora ciò fosse vero, la notizia non potrebbe che trapelare nei prossimi giorni o addirittura nelle prossime ore; ma anche se, per caso, il presidente Petrilli non fosse arrivato a tanto, ho l’impressione che egli si sia egualmente espresso, e non certo a titolo personale, con estrema chiarezza, anzi con durezza. Affrontiamo per ordine, per brevi accenni, questo problema il quale, da solo, a mio parere, meriterebbe un intero dibattito. La Corte dei conti, nel trasmettere alle Camere, nel 1973, la sua relazione sulla gestione finanziaria della RAI-TV, così si esprimeva: «L’IRI, nella qualità di azionista di maggioranza, ha preso in esame nel corso di varie riunioni degli organi deliberanti la gestione della società. Le valu-tazioni dell’Istituto trovano esternazione nella relazione programmatica del Ministero delle partecipazioni statali del 1973, nella quale è affermata, nella ipotesi di rinnovo della concessione, l’imprescindibile necessità che si ristabiliscano nella loro integrità, e non solo nominalmente, i poteri di intervento e le funzioni attribuite dalla legge all’Istituto, quale ente di gestione e azionista di maggioranza della concessionaria, in ordine alla conduzione aziendale e alla economicità della gestione, dovendosi constatare che si sono superati largamente i limiti dei criteri di economicità che caratterizzano la impostazione di fondo delle attività imprenditoriali del gruppo IRI». Vi era dunque fin dal 1973 questa posizione, che non era di riserva, ma addirittura di condanna da parte dell’IRI, massimo socio partecipante, nei confronti della gestione dell’azienda RAI-TV. A questo punto nel dibattito tra le varie tesi (azienda pubblica, azienda privatizzata, azienda irizzata) prevale la tesi indubbiamente singolare secondo cui l’azienda diventa una azienda IRI e pertanto dovrebbe diventare un’azienda pubblica, ma viene gestita come società privata, accollando all’IRI tutto l’onere e non consentendo all’IRI i controlli, le guarentigie, le condizioni di agibilità, che dovrebbero essere concessi.
Si era parlato in proposito di un accordo di superficie. Si era detto lo ripeto per averlo udito che di questa manovra aveva accettato di far parte anche il professor Petrilli in relazione all’avvenire dell’IRI o ad altre contropartite che all’IRI potessero essere concesse. Non è evidentemente così, e che non sia così lo abbiamo imparato per gradi dall’ interessato. L’allarme è stato dato dal Fiorino, che il 1° dicembre 1974 pubblicava i retroscena relativi ad una specie di alterco, per lo meno ad una discussione molto vivace, tra il professor Petrilli e l’onorevole La Malfa. Il Fiorino chiariva che il pro-fessor Petrilli aveva dovuto fare un energico passo presso il Governo, in quanto tutta la dirigenza dell’IRI era assolutamente contraria alla situazione che andava determinandosi. Per qualche giorno non se ne seppe più nulla. Poi, stimolato da un’indagine che veniva pubblicata sul settimanale L’Europeo, il professor Petrilli ha inviato a questa rivista una lettera, in cui erano contenuti dei chiarimenti. Scriveva il professor Petrilli: «Non eravamo quindi, come non siamo mai, latori di istanze che non siano rigorosamente circoscritte alla nostra responsabilità di gestori di un’azienda, alla quale si è ritenuto opportuno conservare lo status giuridico, invero soltanto apparente, di società per azioni».
Ci si deve spiegare che cosa significhi «status soltanto apparente di società per azioni». Non ho né la capacità né la competenza né la voglia di parlare di questo problema in termini giuridici. Ne parleranno altri colleghi ed è opportuno che lo facciano; per quanto mi riguarda, ne parlo in termini squisitamente politici e di responsabilità, ne parlo cioè come cittadino, come deputato, come segretario di partito, il quale vuole capire perché l’ IRI debba avere il cento per cento delle azioni di una società e questa società debba mantenere lo status di società privata. Perché? Da ignorante penso che se si giunge ad una formula anomala, così vistosamente anomala, debba esservi un motivo. E da ignorante, non da malizioso, sono indotto o costretto a pensare che il motivo non sia di quelli che possono essere proclamati sui tetti, perché altrimenti non si sarebbe messo un personaggio importante, serio e responsabile come il professor Petrilli nella condizione penosa in cui egli è stato messo. Penso quindi che vi sia un motivo non confessabile. Il motivo di questo caso da ignorante, lo ripeto può identificarsi in un tentativo di sfuggire a determinati controlli. Lo dico in termini politici, i miei colleghi lo esprimeranno molto meglio in termini giuridici, ma evidentemente si vuole sfuggire uno status per mantenerne un altro solo fittiziamente, in quanto si vogliono ottenere i requisiti e i vantaggi del nuovo status, mantenendo però i vantaggi e i requisiti del precedente. In questo modo si vuole dar vita, anche in questo caso, ad un sistema statale in senso totalitario e di regime, conservando però, sotto il profilo dei controlli, il più comodo status di società a gestione privata. Questo è ignobile; è questa la parte più sporca di tutta la riforma, che nulla può giustificare. Non si può accettare nessun protocollo aggiuntivo, nessuna manovra dietro le quinte, dal momento che qui si gioca con la coscienza e con i soldi degli italiani. Voi fate tutto questo, ma almeno abbiate il coraggio delle vostre azioni! E invece: tutte le azioni all’IRI, tutte le azioni allo Stato, pur trattandosi sempre di una società privata. Queste cose non le fanno nemmeno i magliari, non le deve fare il Governo, né la maggioranza, né la gente rispettabile. Non si mette una persona, anch’essa rispettabile, come il presidente dell’ IRI, nelle condizioni di fare queste figure. Tant’è vero che i rappresentanti che TIRI deve eleggere sono 6 ed a quest’ora, nel protocollo aggiuntivo, sono già scritti i nomi delle persone che il presidente Petrilli deve nominare. Bella figura!
Dice ancora Petrilli, sempre in quella lettera, che, dato il carattere del tutto atipico della RAI-TV, nella quale l’ingerenza dell’azionista è limitata alla corretta conduzione aziendale, senza facoltà di intervento o di interferenza sul prodotto, ossia sui programmi e sulla loro impostazione, l’assolvimento di questi compiti presenta tratti veramente ardui. L’azionista, come ho già detto, e quindi anche il possessore del 100 per cento delle azioni, non può interferire sui contenuti e sui prodotti. Non si tratta in questo caso di una fabbrica di automobili. In questo caso si produce pensiero, coscienza, informazione, cultura, ignoranza, si produce spettacolo, faziosità, si produce violenza. Su tutte queste cose il presidente dell’IRI e la società privata non hanno alcuna facoltà di intervento. Petrilli, sempre in quella lettera, affermava che era veramente arduo risolvere il problema ed aggiungeva di avere sempre espresso le più vive preoccupazioni per una gestione amministrativa progressivamente allarmante. Egli concludeva quella lettera affermando che nel caso specifico della RAI-TV sarebbe pura astrazione, alla luce della realtà, attribuire all’IRI un qualsiasi potere. Senonché il professor Petrilli…. “
ROBERTI: “Se il professor Petrilli continua ad insistere, sarà eliminato! “
ALMIRANTE: “Anch’io ho questa impressione, perché a prescindere dalle voci di una lettera che egli avrebbe indirizzato al Presidente del Consiglio se la notizia corrisponde a verità, tale lettera verrà alla luce ci sono le considerazioni dello stesso professor Petrilli in sede parlamentare, vale a dire dinanzi alla Commissione bilancio della Camera. Anche in questo caso, posso rispondere, a quei giornalisti che hanno parlato male della destra nazionale, che se non ci fossimo stati noi, il professor Petrilli non avrebbe rilasciato certe dichiarazioni a proposito della RAI-TV e della riforma; non le avrebbe certamente rilasciate se non gli fossero state rivolte le domande dell’onorevole Delfino.
Gli è stato chiesto sono costretto a rifarmi al giornale del nostro partito, mancando ancora i testi stenografici dell’intervento come egli valutasse il decreto-legge di riforma della RAI-TV. Il professor Petrilli ha risposto: «L’IRI valuta negativa-mente il decreto-legge di riforma della RAI-TV». Avendogli il nostro parlamentare fatto notare che l’IRI avrebbe un potere diminuito, il professor Petrilli ha risposto: «Ella, onorevole Delfino, ha parlato di un potere diminuito dell’IRI nella RAI-TV, ma forse ha voluto fare dell’umorismo, in quanto l’ IRI potere effettivo non ne ha mai avuto. Figuriamoci ora che su 16 membri del consiglio di amministrazione ne avrà solo 6, …senza nemmeno sapere se potrà liberamente nominarli, o se gli saranno imposti. In questa cosiddetta società per azioni» ha proseguito «l’IRI non potrà esercitare alcun controllo e, trattandosi di un ente pubblico nella sostanza, sarebbe preferibile che lo fosse anche nella forma». Ora vogliamo sapere dal Governo, ma soprattutto dai settori di sinistra, se hanno l’intenzione, almeno dopo queste dichiarazioni del professor Petrilli, di portare avanti fino in fondo la battaglia che i comunisti da tanto tempo, dal loro punto di vista legittimamente, avevano intrapreso per la nazionalizzazione della RAI-TV e per la costituzione di un ente di Stato. La nostra lo sarebbe altrettanto, non voglio dire di più. Quella dell’ IRI è diventata una posizione impossibile: se continuasse ad essere tale, diverrebbe indecorosa e scandalosa. Finalmente la magistratura si sta movendo anche per i casi di peculato: sono finalmente state rispolverate 46 denunce che erano ferme da tanto tempo. Come si pentiranno coloro che, attraverso i protocolli aggiuntivi, ambiscono in questo momento ad entrare nei vari organi, dai quali vogliono escluderci! Quante denunce di peculato verranno fuori! Non c’è dubbio che ciò accada. Quando una amministrazione è incontrollabile, non c’è posto per le persone per bene, le quali cominciano in anticipo a sentir odore di bruciato… Le persone per bene tentano di trarsi di impaccio, e fanno quello che credo stia per fare il professor Petrilli. Non è possibile che una persona per bene accetti di entrare in una società che gestisce migliaia di miliardi dello Stato e del contribuente, sapendo a priori che si tratta di una società la quale non è pubblica e nemmeno privata; sapendo che i controlli non vengono esercitati, come in anticipo dichiarano coloro che dovrebbero esercitarli, traendosi fuori della questione. Questo è peggio di un calderone: altro che lottizzazione! Fin da questo momento potete lottizzare i peculati: cominciate a distribuirli! Non ci fermeremo soltanto ai ricorsi alla Corte costituzionale: come cittadini ed utenti, attraverso la promozione di apposite associazioni, attraverso la civile disobbedienza di cui vi abbiamo parlato, noi vi manderemo tutti quanti in galera, se parteciperete a questo imbroglio!
Questa volta l’imbroglio non è solo perpetrato, ma è anche smaccatamente dichiarato: vi siete scoperti senza malizia. Con qualche espediente tecnico, avreste potuto coinvolgere la responsabilità del presidente dell’IRI, e invece lo avete posto in condizione di lavarsene le mani, prima ancora che la faccenda cominciasse. Come vi salverete, quando vi troverete con ogni probabilità disgiunti anche da quelle responsabilità dell’IRI? Vi salverete in termini di regime: perché il regime ha ragione, perché potete permettervi tutto con la coscienza degli italiani, forse, ma un po’ meno con le tasche degli italiani. Machiavelli insegna tante cose: qui le tasche c’entrano quanto le coscienze. Penso che il vostro calcolo possa essere radicalmente sbagliato.
Non sto facendo un discorso ostruzionistico: come vedete, tratto solo una parte delle molte cose di cui dobbiamo parlare. Debbo aggiungere qualcosa in tema di moralizzazione, perché anche a questo riguardo l’atteggiamento delle sinistre disturba. Una volta gli scandali a questo riguardo erano promossi abbastanza validamente dal Partito comunista. L’onorevole Pajetta proprio alla televisione fece, se non altro, la sua prima campagna elettoralmente efficace, in termini di scandalismo, parlando di mille miliardi. Ci provò, anni fa, anche per quanto riguarda la televisione. Ho qui davanti a me un intervento (non molto lontano nel tempo, del 18 maggio 1969) dell’onorevole Giancarlo Pajetta, nel quale egli così si esprimeva: «L’onorevole Giorno ha parlato di coloro i quali devono il loro posto soltanto alla funzione che svolgono nei partiti. Noi abbiamo chiesto e tale nostra richiesta era contenuta nel testo delle interrogazioni da noi presentate che venisse pubblicato l’elenco dei collaboratori». Quante volte abbiamo chiesto l’elenco dei collaboratori! Ne parlò l’onorevole Roberti, ne parlarono gli onorevoli Giuseppe Niccolai e Calabrò, ne hanno parlato un po’ tutti i nostri; per la verità ne parlavano anche i comunisti. «Di quelli proseguiva Pajetta che prendono più di sei milioni l’anno» (cifra che va riferita al 28 maggio 1969) «chiedendo di sapere se avessero un doppio lavoro, presso quali uffici, studi, segreterie di partito, uffici stampa». Siccome, nel frattempo, molti di essi si sono trasferiti nella segreteria e negli uffici del Partito comunista, quest’ultimo l’elenco non lo chiede più. Questa sarebbe stata certamente un’informazione interessante, ma non l’abbiamo avuta. «Onorevoli colleghi continua l’onorevole Pajetta senza nulla concedere all’ amore del paradosso, che pur non nascondo, devo dire che qualche volta i meno dannosi sono i funzionari politici che vengono pagati dalla RAI e non lavorano presso la RAI, quelli che vengono pagati soltanto perché uno dei partiti chiede di ottenere un canonicato e quindi uno stipendio. Questi sono i meno deleteri. Ci rubano il denaro perché questo è quello che si deve dire ma accontentiamoci, perché ci rubano solo il denaro, mentre gli altri ci rubano anche i minuti della televisione (e questo è più grave)». Chissà se l’onorevole Pajetta ha voglia di ripetere interventi di questo genere o se qualcuno dei suoi amici è disponibile per dire queste cose. “
ROBERTI: “Ora ci sono le nuove leve! “
ALMIRANTE: “Chissà se, ora che il Partito comunista fa parte della lottizzazione, i famosi elenchi dei collaboratori verranno fuori. E, come ho già detto precedentemente, chissà se, ora che il Partito comunista può dare informazioni dirette, si saprà quanto vengono pagate le interviste a Umberto Terracini, a Lelio Basso, a Paolo Vittorelli (sarebbe molto importante sapere queste cose). Chissà se il dottor De Feo, che in altri tempi sollevò nuvoloni e polveroni, almeno attraverso la sua denuncia di comunistizzazione della RA I -TV, sarà contraddetto col vigore del passato dai comunisti nelle occasioni che potrebbero verificarsi. Sono riusciti a liquidarlo proprio perché ha fatto il suo dovere. Comunque sia, verranno fuori, questa volta, gli elenchi dei collaboratori, le loro retribuzioni! E le denunce per peculato, senza alcun dubbio, si estenderanno. Onorevole ministro, la pregherei di darci, nella sua replica, qualche notizia sulla SIPRA, che rappresenta un problema essenziale. Altri esponenti della mia parte politica parleranno in maniera approfondita della questione della pubblicità; io non mi ci soffermo se non per dire, come giornalista professionista, che il problema della SIPRA non può non essere esaminato e deve essere risolto. E non può essere risolto «a babbo morto», cioè dopo; occorrono per lo meno in questa sede, soprattutto se dovesse essere posta la questione di fiducia, impegnative dichiarazioni del Governo e, se possibile, a parte la questione di fiducia, del Presidente del Consiglio. Perché dico questo? Perché sul problema pubblicità radiotelevisiva o, più vastamente, sul problema pubblicità in generale come ella sa, signor ministro sono caduti dei Governi? Perché? Perché ed io le parlo come giornalista professionista il problema della sopravvivenza della stampa quotidiana e di larga parte della stampa pe-riodica è legato alla soluzione del problema della pubblicità. E se ella avrà l’amabilità di rispondere, signor ministro, ci fornisca, per cortesia, i dati reali. Ho qui una tabella che risale al 1973 ed è di fonte comunista; alla stessa non dovrei, pertanto, prestare ascolto, ma proprio per tale sua natura la prendo in esame. È stata pubblicata in allegato al bel volume di studio del Partito comunista sul convegno relativo alla riforma della RAI-TV tenutosi nel marzo 1973, a Roma. Da tale tabella che, ripeto, proviene da quella fonte, risulta che nel 1963 la TV incassò l’11,2 per cento dei proventi pubblicitari e nel 1970 il 16,9 per cento degli stessi. La stampa quotidiana, invece, dal 1963 al 1970 è passata sempre secondo quei dati dal 38 al 28 per cento. Cioè, mentre la TV ha guadagnato il 5,7 per cento, la stampa quotidiana ha perduto il 10 per cento. La stampa periodica avrebbe guadagnato ma subito dopo, onorevole ministro, le fornisco di ciò una spiegazione passando dal 25,3 al 33,4 per cento. La stampa nel suo insieme ha, tuttavia, perduto, passando dal 63 al 61 per cento. Sa perché, onorevole ministro, la stampa periodica ha complessivamente guadagnato negli anni che ho considerato? Perché la SIPRA «non si limita» (leggo su un giornale) «ad avere questo soltanto; vuole di più ed invade tutti i settori pubblici-tari. Ha più di 40 testate di giornale, ha 2.400 sale cinematografiche, si occupa di pubblicità con aerei, e il che è una chiara violazione dello statuto che regolava la sua azione». Sicché, che cosa è successo? Che il Partito socialista, volendosi impa-dronire di una testata, non di quotidiano ma di periodico, Tempo illustrato, tanto per non fare altri nomi, è arrivato ad un contratto con la SIPRA; il tutto, per sostenere un periodico che nessuno leggeva perché mal fatto, perché crollato, non perché socialista. A questo punto, nei proventi pubblicitari della stampa periodica risulta un incremento, trattandosi di quattrini che sono pur entrati nelle casse della stampa periodica, ma che vi sono entrati in tal guisa. Li sottragga, dunque, onorevole ministro! Sottragga questi e molti altri denari; si faccia informare, dunque, sulla vera situazione delle testate dei quotidiani e, soprattutto, di taluni periodici ad altissima tiratura. Andate a leggere nei bilanci potete farlo e vedrete quel che la SIPRA fa, traffica, procura, vende, mercanteggia; vi addentrerete in una specie di letamaio da cui risulta come attraverso tale grossa, colossale direi, operazione, si tenti di imbavagliare quel che rimane di libero nella stampa italiana, quotidiana e periodica. Glielo dico, onorevole ministro, come giornalista. Non fate passare questa occasione senza informare il Parlamento sulla situazione degli accordi RAI- SIPRA, sulla situazione di gestione di quest’ultima, sulla situazione relativa alla presidenza ed alla direzione della società, sulle presenze socialiste (non so se anche di altri partiti) al vertice della stessa: perché questo è, o si avvia ad essere, in una nazione così ricca di scandali, forse il più grosso tra quelli nazionali.
A questo punto, onorevoli colleghi, desidero tornare a noi per concludere. Desidero, cioè, dire con franchezza qual è la nostra posizione, che non si esaurisce in un «no» e neppure in termini dell’ostruzionismo parlamentare, ma continua per una battaglia che dal Parlamento porteremo nel paese, con tutti i mezzi a nostra disposizione e con decisione estrema. Vi dico questo coonestando la nostra posizione con testimonianze indubitabili. La RAI-TV, nell’ormai lunga esperienza di esercizio monopolistico, ha determinato non malcontento ma disgusto, signor ministro. Le cito una testimonianza, molto lontana, oserei dire quasi la più lontana, in termini politici, dalla nostra: Panorama del 20 dicembre 1973, a firma Giorgio Galli. Titolo: «Umiliati dalla RAI-TV». Ed è una denominazione che credo di poter accettare, moralmente. Come cittadini, siamo tutti quanti al di là e al di sopra delle parti. Forse, quel che ci unisce in Italia, oggi, è il senso di prostrazione e di umiliazione che la TV porta nelle case di tutti quanti noi. «Umiliati dalla RAI-TV». Dice Giorgio Galli in questo articolo: «Mentre scrivo, ascolto i comunicati delle varie agenzie delle correnti di partito che gli annunciatori radiotelevisivi leggono come se fossero notizie». Ripeto: i comunicati delle agenzie delle correnti di partito che gli annunciatori radio-televisivi leggono come se fossero notizie. «Abbiamo perfino perso il senso della notizia, lo dico da giornalista, il gusto della notizia. Ascoltare la TV significa perdere la certezza della notizia e quindi del fatto, significa non avere riferimenti. In questo modo squallido e anonimo di imbrogliare i cittadini italiani che la pagano, infonde una tale indignazione che occorre poi recuperare la propria lucidità di osservatore per ricordare che la RAI-TV occupa anche eccellenti operatori culturali che mettono a punto programmi che possono venire collocati anche all’estero per il loro notevole livello». E aggiunge: «Non c’è banale espressione di qualsiasi autorità costituita che non venga presentata e letta come se fosse un testo di Emanuele Kant. Quanti telegrammi (non alludo), quanti telegrammi alla televisione! Non c’è inutile cerimonia che non venga annunciata come momento cruciale della storia italiana. Figuratevi il 1975 che cosa sarà a questo riguardo. Il conformismo si appaia all’ignoranza. Mi è capitato di sentir dire più volte in un giorno, in occasione del trattato ceco-tedesco, che l’accordo di Monaco cedeva la Boemia alla Germania. Chi inganna così i suoi concittadini non potrà mai governarli bene. I fatti e l’economia non possono essere trattati con il disprezzo con il quale la RAI-TV tratta gli italiani». Potrebbe essere la dichiarazione di voto di un deputato del MSI-Destra nazionale; è una dichiarazione di disprezzo e di disistima nei confronti della gestione RAI-TV e quindi nei vostri confronti, da ora in poi, da parte di un politologo di sinistra come Giorgio Galli.
Ma io devo ricordare che nei dibattiti precedenti, in questi lunghi anni, osservazioni accurate vennero rivolte ai vari governi e alle varie maggioranze dei deputati facenti parte della maggioranza. Cito a caso. Ricordo che nella seduta del 27 maggio 1969 un democristiano autorevole, l’onorevole De Maria, ebbe a parlare esplicitamente di un sovversivismo culturale alla TV e a deplorarlo. Ricordo che il socialdemocratico onorevole Reggiani, nella seduta del 6 maggio 1971, riferendosi ad una ignobile trasmissione televisiva pro- Gheddafi e contro i nostri profughi della Libia, ebbe a deplorare il comportamento della televisione. Ricordo che l’allora ministro delle Poste e delle Telecomunicazioni, onorevole Mazza, il 28 maggio 1969, fu da noi costretto a deplorare la partecipazione di un giornalista comunista ad una trasmissione dedicata alla gloriosa Marina militare italiana e all’episodio di Alfa Tau. Ricordo che in molte occasioni questo tipo di cocenti deplorazioni ha avuto luogo; e quindi, quando passo a parlarvi e lealmente della nostra posizione, credo di essere autorizzato a farlo da milioni di cittadini italiani, da tutta una pubblica opinione, che può essere di destra, di centro o di sinistra, ma che non ne può più, perché non ritiene di poter essere rappresentata a questo modo. E allora veniamo a noi, parlando con chiarezza e anche perché sappiate qual è non il sottofondo, ma il fondo autentico di sentimento, sì, di sentimento e di passione e, se ci si consente, di chiara volontà politica da parte nostra quando affrontiamo questo problema. Ho letto ed abbiamo letto tutti sulla Stampa di Torino (del fatto hanno parlato anche tutti gli altri giornali, ma io cito La Stampa di Torino perché l’estrazione politica di questo quotidiano, i suoi connotati ed il suo atteggiamento viscerale contro di noi non permettono dubbi di una qualsiasi colleganza nei nostri confronti), ho letto, dicevo, l’altro giorno, il resoconto del discorso che il procuratore generale di Bologna ha pronunciato, riferendosi all’atteggiamento del ministro Taviani per la strage dell’Italicus. Egli ha detto testualmente (sono brevi frasi, ma, per i motivi che dirò, ve le devo citare): «L’ordine giudiziario non contesta al ministro per gli Affari interni la facoltà di pensare che quanto riferito dagli organi di polizia da lui dipendenti debba essere tenuto nel debito conto dai magistrati inquirenti, ma contesta decisamente il potere di indicare in Parlamento ritardi da lui arbitrariamente desunti in relazione a indagini in corso». Il procuratore si riferisce all’ I talicus. Aggiunge ancora: «È probabile che la divisione dei poteri dello Stato non sempre sia considerata immanente quando la politica interseca la strada della giustizia, ma è certo che apprezzamenti critici di organi costituzionali dello Stato non contribuiscono ad assicurare la serenità del nostro lavoro nel delicatissimo momento delle indagini preliminari. Le critiche del potere politico, specie se relative a fatti di gravità eccezionale, finiscono con l’alimentare nell’opinione pubblica non sporadiche credenze di uno scollamento del potere statuale. Sul tappeto della politica un ministro può puntare sul rosso e sul nero secondo le sue personali convinzioni, mentre sul banco della giustizia si punta soltanto sul colore della verità, che può essere messo in luce se l’animo è sgombro da preconcetti di ogni genere, specie in tempi nei quali troppi scritti anonimi circolano con accuse o millanterie autoaccusatorie».
Dopo la strage dell’ Italicus, il signor ministro dell’Interno, nell’esercizio dei suoi poteri, viene alla Camera ed offre una determinata versione, la offre senza avere avuto la possibilità di accertamenti preliminari, la offre nel quadro di un suo pregiudizio ostinato, che egli, d’altra parte, ha pagato venendo cacciato via dalla carica di ministro dell’Interno. Successivamente la televisione si impadronisce del fatto, e se ne impadronisce non per informare gli italiani sul corso delle indagini, ma per portare innanzi la tesi che il ministro ha difeso in Parlamento; e la sera delle esequie alle dodici vittime la televisione mette se stessa a disposizione per trasmettere dalla piazza di Bologna un comizio del sindaco comunista di quella città. Per questa occasione, parlando con estrema serenità, non ho nulla da dire nei confronti del sindaco comunista di Bolo-gna, il quale, facendo il sindaco, e il sindaco comunista, riteneva di servire in quel modo gli interessi del suo partito.
Alla manifestazione di Bologna erano però presenti le massime autorità dello Stato, e a questo punto ho qualche cosa da dire nei confronti del sindaco di Bologna come ufficiale di Governo, e ho molto da dire nei confronti delle autorità presenti; ma ho soprattutto moltissimo da dire nei confronti della televisione, la quale, quella sera, ha portato nelle case di tutti gli italiani non solo una versione di parte, non solo un comizio di parte, ma un linciaggio di parte, un linciaggio morale, politico e materiale di parte nei confronti di una parte politica che è quella che io mi onoro responsabilmente di dirigere. La televisione, quella sera e nei giorni successivi, ha montato l’opinione pubblica in termini di guerra civile, ha indicato dei colpevoli che sono risultati non esserlo, ha indicato dei mandanti che ancor meno possono risultare tali, ha occultato le vere indagini che si movevano o potevano muoversi in altre direzioni, si è resa complice nei confronti del ministro dell’Interno, del Presidente del Consiglio, dell’intero Governo, dell’intero cosiddetto «arco democratico» nel più sconcio e squallido tentativo di determinare in Italia… Onorevole Bubbico, stia per favore attento. Moralmente ho il diritto di chiederglielo, e di invitarla a non distrarre il ministro, perché è al Governo che io sto parlando. “
BUBBICO: “Ella non è il Presidente di questa Assemblea. “
PRESIDENTE: “Onorevole Bubbico, la prego di non disturbare il ministro, che ha il diritto-dovere di ascoltare. “
BUBBICO: “Accolgo il suo invito, signor Presidente. “
ALMIRANTE: “Dicevo che si è compiuto allora l’ignobile tentativo di determinare nel nostro paese un clima di guerra civile: un tentativo, signor ministro, che non è stato senza effetto, perché nei successivi dieci giorni posso documentarlo sono saltate per aria, per delle «bottiglie Molotov», 40 sedi del partito che ho l’onore di dirigere. Per fortuna non ci sono state vittime, perché si è trattato di attentati notturni, ma 40 sedi sono state devastate con quella giustificazione. Me la devo io prendere con i 40 gruppi di ignobili attentatori notturni? In un certo senso, sì, ma non oltre quel senso, perché sarei iniquo nei confronti financo dei teppisti; io me la devo prendere con chi ha armato le loro mani! Ho citato il caso limite, il più grave e l’ ho voluto citare perché ho avuto la testimonianza del procuratore generale di Bologna; ma ella sa, ed i pochi colleghi presenti sanno, che si tratta di una costante, che si tratta di un linciaggio al quale siamo esposti ogni giorno, che si tratta di un linciaggio che si verifica giornale radio per giornale radio, giornale televisivo per giornale televisivo, che si tratta di un linciaggio che in questi giorni sta tentando di determinare a Roma attenzione! un clima di guerra civile. Ho già detto all’inizio di fare attenzione: Roma è la città dei fratelli Mattei, che nessuno ha visto in televisione (e siamo moralmente lieti, perché i loro volti arsi erano una cosa pulita, la più pulita che io abbia visto da molti anni a questa parte, che non siano apparsi alla televisione). Tra un mese si celebra il processo contro gli assassini; e gli assassini sono stati scoperti perché è stata scoperta la figliola di un direttore di giornale. E quel giornale, il giornale della droga, è il giornale che ancora stamane monta lo scandalo, riferendosi alle recenti trasmissioni televisive contro la violenza fascista a Roma: attenzione! Non si proceda lungo questa strada; e se si procede lungo questa strada ci si renda conto che un partito politico che gode di tutti i diritti e adempie tutti i doveri non può consentire che si continui così. Ho parlato di civile disobbe-dienza: la porteremo avanti. Ho parlato di associazioni degli utenti, che promuoveremo per la difesa della libertà di informazione; ho accennato ad ambienti di stampa e di opinione che non possono non condividere le nostre tesi, non dico i nostri interessi, e quindi il nostro impegno di battaglia. Ho accennato a tre milioni di elettori, che sono almeno cinque milioni di cittadini, che la pensano così, perché avete l’inumanità di colpirli ogni giorno, di provocarli ogni giorno, di ferirli ogni giorno nei loro sentimenti, nei loro convincimenti, giusti o sbagliati che siano. Ma molto più ampiamente devo accennare, onorevole ministro, ad uno stato di insoddisfazione, di agitazione e di ribellione morale, di rivolta ideale che non può non pervadere tutti gli italiani degni di questo nome, se su questa strada si pensa di continuare. E non pensiate che noi siamo come i comunisti, disponibili per le lottizzazioni, e quindi disponibili per tacere e per non combattere sulla riforma ed a qualsiasi costo. Qui si tratta di intraprendere e di riprendere la strada segnata, non da noi, ma dalla Corte costituzionale per la libertà di informazione e di formazione della pubblica opinione, e di trovare un numero sempre maggiore di italiani, nel Parlamento e nel paese, decisamente ostili, capaci di combattere. Non voglio sembrare irriverente nei confronti di valori nei quali crediamo e nei quali abbiamo dimostrato di credere; ma penso che un Cavour 1975 potrebbe anche dire, senza bestemmia: «libera antenna in libero Stato».
Badate, i problemi della riforma sono diventati coincidenti, in uno Stato moderno, con i problemi della coscienza e della libertà di coscienza. Non è possibile combattere per la libertà di coscienza senza concedere alla coscienza la capacità di abbeverarsi alle fonti del sapere e della informazione. Voi ci concedete in questo momento ne siamo onorati, anche perché ce lo siamo duramente guadagnato il gonfalone della libertà di antenna in un libero Stato: porteremo avanti questa consegna.”
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