Perché Borsellino fu davvero un eroe
Marcello Veneziani , La Verità (19 luglio 2022)
Il giorno in cui Paolo Borsellino fu assassinato, il 19 luglio 1992, aveva risposto alla lettera di una studentessa di 17 anni di Padova che gli poneva domande sulla mafia. «Oggi non è certo il giorno più adatto per risponderle – scrisse Borsellino – perché la mia città si è di nuovo barbaramente insanguinata ed io non ho tempo da dedicare neanche ai miei figli. Ma è la prima domenica, dopo almeno tre mesi, che mi sono imposto di non lavorare e non ho difficoltà a rispondere, però in modo telegrafico, alle Sue domande». La prima domenica, cioè l’ultima. Ho avvertito un brivido lungo la schiena leggendo quelle righe che sembrano quasi far la cronaca profetica di quel che gli sarebbe accaduto poche ore dopo; e suonano come un messaggio di congedo verso la famiglia e i figli, col rimorso di aver dedicato tutto il suo tempo, anzi la vita, al servizio dello Stato.
Quando si parla di Falcone e Borsellino, nutro per entrambi massimo rispetto e ammirazione; però, lo confesso, propendo per Borsellino; finora lo spiegavo col fatto che lui non era uomo di potere, come invece è stato Falcone; era un uomo di destra, ed è andato incontro alla morte con virile fatalismo, sapendo già ciò che sarebbe accaduto, dopo l’uccisione di Falcone. Era un morto che camminava, ma a testa alta. Dopo la strage di Capaci disse a sua moglie: “La mafia ucciderà anche me quando i miei colleghi glielo permetteranno, quando Cosa nostra avrà la certezza che adesso sono rimasto davvero solo”.
Ma poi la spiegazione chiara della mia preferenza per Borsellino me l’ha data lo stesso Falcone in un’intervista: “quello che mi separa da Borsellino: lui crede di recuperare valori che per me sono obsoleti”. E poi: ”non si può andare contro i missili con arco e frecce”. Eccolo l’eroe, il don Chisciotte, che combatte con armi inadeguate nel nome di principi che non ci sono più. Ma alla fine, l’esito fu tragicamente uguale per entrambi, l’idealista Borsellino e il realista Falcone. E davanti al comune destino di vittime, ti sfiora un’obiezione: non è meglio morire per i valori e attaccando seppure “con arco e frecce”, piuttosto che negoziando con poteri e istituzioni, muovendosi con accortezza e ritenendo ormai superate le motivazioni più nobili? Pur essendo morti entrambi per l’Italia, per lo Stato e per la Giustizia, come si può chiamare quella differenza? Senso dell’onore, missione eroica, amor patrio.
Ho conati di vomito quando vedo le autorità, anche altolocate, del nostro paese celebrare Borsellino. Quanti sordi, muti, collusi, figli di collusi, complici, reticenti e omertosi, magari passati pure per combattenti e vittime della mafia.
Quella pagina scritta e strappata il 19 luglio di trent’anni fa è una vergogna per la magistratura, per le istituzioni, per il potere, e di riflesso per l’Italia. Borsellino chiamava il Palazzo di giustizia “un covo di vipere”; ma altre serpi covavano in seno le istituzioni, e in alto…
“Fin quando siamo stati zitti – ha detto la figlia di Borsellino, Fiammetta – il salone di casa nostra era pieno di presunti amici di mio padre che venivano a raccontare balle a mia madre. Da quando invece ho deciso di parlare, di dire senza peli sulla lingua che le responsabilità delle stragi di Capaci e via D’Amelio sono a più livelli, da quel momento ci siamo improvvisamente ritrovati soli. E conclude che suo padre incarnava “la faccia pulita dell’Italia”.
Quel 19 luglio del ’92 fu ucciso a Palermo il presidente ideale della seconda repubblica italiana. Era un magistrato come colui che fu poi eletto presidente della repubblica (Scalfaro) ma lui all’Italia dette la vita e non la retorica. Era un magistrato ma non era malato di protagonismo e di livore. Tre giorni prima della strage di Capaci 47 parlamentari del Msi lo votarono presidente di una repubblica ideale. Quarantasette, morto che parla; e dopo che uccisero Falcone, Borsellino era un morto che parlava. Sapeva ormai da due mesi che il prossimo sarebbe stato lui ma rimase al posto suo, a testa alta. Perché lui era davvero un uomo d’onore, nel senso che alla mafia di una volta incuteva timore e rispetto; meno alla nuova, più spregiudicata e cinica. Lui era un servitore dello Stato, credeva nell’autorità dello Stato e nella missione del magistrato. Non serviva solo la Repubblica e la Costituzione ma amava la sua patria, l’Italia, a partire dalla sua Sicilia. Da giovane aveva militato nelle organizzazioni del Msi. Peccato che furono così pochi a votare per lui: se quel voto lo avesse portato al Quirinale, avrebbe salvato la vita a lui e la dignità alla Repubblica.
Quanta gente campa ancora sulla morte di Borsellino. Quanti magistrati devono a eroi come lui se hanno avuto largo credito e pubblica fiducia. La magistratura italiana per anni ha campato sull’eredità di toghe insanguinate come la sua, godendo di un’autorevolezza assoluta. Nessuno poteva toccare il prestigio delle toghe dopo il sacrificio di Falcone e Borsellino. Quanti politici e giornalisti si fanno ancora belli in suo nome e pretendono, al riparo della sua ombra, di stabilire chi sono oggi i mafiosi, i loro alleati e succedanei, e chi sono invece i loro nemici, legittimati a sentenziare. Quante anime belle hanno inzuppato la loro retorica nel sangue di quel magistrato. C’è una vena di sciacalleria in tutto questo e di appropriazione indebita della memoria di un eroe, un martire e un galantuomo. Borsellino non era un giudice d’assalto malato di protagonismo e di furore ideologico. Non era amato dai suoi colleghi di sinistra. Non era un giudice giacobino, non cercava popolarità attraverso clamorosi atti giudiziari, non scriveva romanzi come tanti suoi colleghi vanesi e non pensava di darsi alla politica, di portare all’incasso la sua fama di giudice antimafia. Sul suo conto in banca c’era solo un milione di lire. Di lui resta appesa al muro la bicicletta. Poi le foto, con Falcone e senza, la sigaretta appesa alle labbra, lo sguardo, e dentro il destino.
Marcello Veneziani , La Verità (19 luglio 2022)
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