Seduta dell’8 novembre 1971
Nel dibattito sul disegno di legge governativo che prevede provvedimenti per il personale docente delle Università, Giorgio Almirante presenta una relazione di minoranza. La proposta prevede l’assunzione da parte delle Università di quel personale che, comunque assunto, presta servizio in qualità di assistente, borsista o ricercatore. Attraverso la critica diretta alla proposta, il discorso si allarga alla validità dei titoli di studio e a tutta la situazione universitaria. Il disegno di legge non fu mai approvato, per l’impegno posto dal relatore di minoranza Almirante
Una lezione di civiltà
ALMIRANTE: “Signor Presidente, onorevoli colleghi, onorevole ministro, quasi tutti coloro che sono intervenuti prima di me nel corso di questo dibattito hanno lamentato, dinanzi all’aula semideserta o deserta, lo scarso interessamento dei giornali, il disinteresse si dice oggi la «disaffezione» di tanta parte della pubblica opinione. Io non imiterò i miei colleghi. Intendo rilevare, al contrario, che mi sento onorato di prendere parte alla conclusione di questo dibattito che si è svolto in maniera civile e che ha dato luogo ad un interessante confronto di opinioni. Credo di poter dire le assicuro, signor ministro, e lo dimostrerò, che sono stato diligente lettore di tutti i discorsi pronunciati in quest’aula nelle passate sedute che è stato uno tra i più seri, uno tra i più approfonditi, e in qualche guisa anche uno tra i più responsabili e quindi significativi dibattiti che si siano svolti in Parlamento. È l’importanza del tema, senza dubbio, che ha indotto tutte le parti politiche ad assumere le loro responsabilità.
E poiché ho detto, signor ministro, che si è trattato di un dibattito svoltosi in termini civili, spero che ella non si dolga se io profitterò di questa occasione per dire una parola, una sola, intorno ad un argomento che riguarda la civiltà e la scuola, anche se non concerne la riforma universitaria. Credo, signor ministro, che sia stato lei personalmente l’ispiratore di una piuttosto dura nota, di quelle che si chiamano ufficiose, emessa dal suo dicastero nei giorni scorsi, in risposta ad una lettera dei presidi della quale io confesso, a mia volta, di essere stato l’ispiratore. Ebbene, signor ministro, in termini di civiltà io desidero informarla, qualora ella non lo sappia, di ciò che sta accadendo in questi giorni in tutti o quasi tutti gli istituti medi della capitale. È uno spettacolo indecoroso, è uno spettacolo preoccupante. Quanto all’indecoroso, ho il dovere di avvertirla che ci stiamo documentando fotograficamente per quanto riguarda le sue responsabilità politiche e soprattutto le responsabilità politiche, e forse anche personali, del suo collega il ministro dell’Interno; per quanto riguarda le preoccupazioni che derivano a noi, e crediamo a tutte le parti politiche e, vogliamo pensare, a tutti i padri di famiglia, io l’avverto, signor ministro, che non siamo disposti a tollerare, senza reagire, ciò che sta accadendo.
Si indicono nelle scuole medie di Roma, in questo momento, le cosiddette «assemblee aperte»: aperte non soltanto agli studenti, tanto meno ai genitori degli studenti, aperte ai teppisti. Gli studenti di tutte le parti politiche vengono attirati in quelle libere assemblee, ne escono pesti e sanguinanti. Non può durare così.
Pertanto, signor ministro, se lei è l’ispiratore e lo credo della precedente nota in risposta alla precedente lettera di cui mi onoro di essere stato l’ispiratore, rilegga quella sua nota, riveda le sue posizioni di coscienza, assuma le sue responsabilità insieme con il suo collega ministro dell’Interno prima che accada di peggio. Dopo di che vengo all’argomento, il dibattito sulla riforma universitaria, per rilevare, credo con obiettività, che l’esito della discussione generale fin qui svoltasi non è molto consolante per il Governo e per la maggioranza. Lo hanno notato altri colleghi nel corso del dibattito, non è vero, onorevole Nicosia? Io posso rilevarlo statisticamente a conclusione del dibattito. La maggioranza è intervenuta quasi silenziosamente mi occuperò poi di questa quasi silenziosa parte della maggioranza attraverso interventi stringati e non eccessivamente significativi del Partito socialista, del Partito socialdemocratico e del Partito repubblicano; per l’esattezza, un intervento del Partito repubblicano, un intervento del Partito socialista, due interventi del Partito socialdemocratico. Massiccio il peso e ci congratuliamo con i colleghi numerico, e non soltanto numerico, quantitativo e qualitativo degli interventi del gruppo della Democrazia cristiana. Quanto però agli orientamenti, su quindici interventi del gruppo della Democrazia cristiana, ivi compreso quello del relatore onorevole Elkan, io ho annotato cinque interventi, a essere benevoli, perplessi; sei interventi favorevoli con qualche riserva, a cominciare dalle riserve onestamente espresse dal relatore. Sicché, signor ministro, se dalla qualità, dal contenuto, dall’orientamento, dalle conclusioni degli interventi della maggioranza in quest’aula si dovesse dedurre, come sarebbe logico e onesto dedurre, un orientamento della maggioranza nel suo complesso, si dovrebbe ritenere che questa legge non sia destinata a passare.
Accadrà probabilmente, o quasi certamente, il contrario, ma non può essere senza peso politico la considerazione che io mi sono permesso di fare e che mi sembra del tutto obiettiva, né credo si possa dire, come è stato detto da qualcuno, che questa legge sta nascendo in Parlamento. Perché allora avrebbe un peso davvero determinante la considerazione dello scarso numero dei colleghi presenti nel corso di tutta la discussione generale e credo nei prossimi giorni anche nella discussione degli emendamenti. Sappiamo che i colleghi entreranno in aula al momento della votazione (e speriamo che i congegni elettronici funzionino e non si inceppino come è accaduto nel Belgio in questi giorni), ma se si presume che un disegno di legge di questa portata, di questa responsabilità, addirittura storico, come è stato detto da qualcuno, come direi anch’io, possa nascere dall’Assemblea, allora i banchi dovrebbero riempirsi; allora la maggioranza quasi silenziosa o assente o latitante deve assumersi norma per norma, articolo per articolo le sue responsabilità. Sta di fatto, invece, che coloro che ritengono di dover esprimere qualche cosa la esprimono in maggioranza in dissenso dal Governo e dal ministro, e gli altri preferiscono assentarsi per intervenire soltanto come votanti: modo poco decoroso per intervenire in un dibattito di questo genere. Il mio compito, comunque, signor ministro, è oggi quello del relatore di minoranza e di opposizione. Esso consiste nell’esaminare criticamente le posizioni altrui, e mi perdoneranno i colleghi ai quali mi riferirò se le mie osservazioni critiche potranno apparire, saranno anche polemiche, ma lo saranno nel pieno rispetto, per i motivi che ho detto poco fa, delle tesi da tutte le parti sostenute. Mi permetterò di ribadire anche le nostre posizioni e in ciò il mio compito è stato enormemente alleggerito dagli interventi dei colleghi del mio gruppo, che io sento il dovere di nominare e di ringraziare: con alla testa il correlatore onorevole Nicosia, sono intervenuti per noi gli onorevoli Menicacci, Turchi, De Lorenzo, Sponziello, Niccolai, Caradonna, Manco, d’Aquino. Credo che interverrà il presidente del nostro gruppo, quanto meno in sede di dichiarazione di voto. È quindi legittimo da parte del gruppo del MSI permettersi di fare le osservazioni che or ora ho fatto circa lo scarso impegno di altri gruppi, poiché noi abbiamo fatto il possibile, abbiamo cercato di chiarire le nostre posizioni anche con una relazione scritta, che se non mi lusingo sia stata letta dai colleghi, spero sia all’attenzione dell’onorevole ministro per quel poco che egli ne vorrà dedurre di positivo. Mi riferisco in primo luogo, in senso critico, agli atteggiamenti assunti dalla maggioranza democristiana. Noi abbiamo la fortuna, onorevole Elkan, di avere come relatore per la maggioranza una persona come lei, cioè un relatore garbato, discreto, tanto discreto da avere mascherato sotto una vernice non dico di indifferenza ma di cortesia, quella che si sente essere una sua sostanziale (mi perdoni, è la mia interpretazione, evidentemente)… “
ELKAN: “Cercherò di chiarire dopo il mio pensiero. “
ALMIRANTE: “…allergia a questo disegno di legge. E se io dico che sotto la vernice delle sue espressioni cortesi si sente una sostanziale sua allergia o contrarietà, Io dico perché lo afferma lei nella sua relazione. Infatti ella dice testualmente:..risultano trasparenti i limiti e le zone di ombra».
Trasparenti, dunque. Risultano tanto trasparenti che ella non si è indugiato nella sua relazione per rendere visibile del tutto, limpido, quel che è trasparente. Ella ha creduto (ha perfettamente ragione) che non valesse neppure la pena di individuare le «zone di ombra», poiché ciò l’avrebbe costretto a individuare le zone di luce, e ciò sarebbe stato veramente difficile. Noi comunque la ringraziamo per la cortesia con la quale, essendo relatore per la maggioranza, ha voluto venire incontro alle tesi della minoranza, ha voluto convalidare le tesi, le perplessità, le contrarietà della minoranza. La ringrazio anche per avere detto che la seconda parte della legge (l’onorevole ministro sa che la seconda parte della legge è piuttosto «corpulenta») «assume troppe volte aspetti normativi e regolamentari». Sicché, secondo il relatore della maggioranza, o meglio (voglio essere più corretto) secondo la mia interpretazione della relazione di maggioranza (una interpreta-zione peraltro che è ancor più trasparente di quello che traspare attraverso le trasparenze oscure della legge), attraverso quanto si evince dalla relazione di maggioranza si deduce che questo disegno di legge si compone di due parti: la prima, è ricca di zone d’ombra, la seconda, è normativa e regolamentare. Non mi pare che il giudizio, nel complesso, sia tale da lusingare eccessivamente l’onorevole ministro. E, ripeto, sono obiettivamente lieto, come oppositore nei confronti di questa legge, che un giudizio tanto sereno sia stato espresso dal relatore per la maggioranza.
Nel merito, onorevole Elkan, voglio riferirmi ad uno solo tra i problemi che ella ha ritenuto di sollevare, perché riferendomi a tale problema avrò modo di esaminare una delle questioni più gravi che emergono dal contesto della legge, la questione della quale si sono occupati soprattutto i colleghi del gruppo liberale, quella cioè della validità legale del titolo di studio. Nella sua relazione, onorevole Elkan, a questo riguardo si legge: è probabile che fra qualche anno si riproponga il problema (quello dell’abolizione del valore legale del titolo di studio o del «numero chiuso», secondo una alternativa che soprattutto in Senato dal senatore Bettiol, se non sbaglio, ma anche alla Camera dell’onorevole Gui, è stata posta in maniera molto decisa) «nell’interesse dei giovani». Questa poteva anche essere considerata una battuta, una interpolazione, o comunque poteva essere considerata una sua posizione personale di coscienza. Senonché, leggendo con attenzione gli interventi degli altri colleghi della Democrazia cristiana, soprattutto dell’onorevole Spitella ma anche degli onorevoli Rognoni e Berté, come avrò modo più avanti di documentare attraverso citazioni dirette dei loro interventi, ci si accorge che questa è una posizione del gruppo della Democrazia cristiana.
Appunto per questo desidero soffermarmi su queste argomentazioni, in primo luogo per cercare di comprendere la portata delle posizioni e delle motivazioni del gruppo della Democrazia cristiana, in secondo luogo per denunziare, onorevoli colleghi della Democrazia cristiana da un lato e del Partito socialista italiano dall’altro, l’esistenza, al centro di questa importantissima legge, di quella che qualcuno di voi (non io) ha definito una «truffa»: questo termine è stato usato in polemica con il gruppo della Democrazia cristiana dal gruppo del Partito socialista italiano ed è stato ritorto nei confronti del gruppo socialista da quello della Democrazia cristiana, nel corso di uno scambio di battute, sia pure cortese, svoltosi in quest’aula nei giorni scorsi. Perché si è parlato di truffa? Lo sanno tutti, ma è bene ribadirlo in questa sede e in questo momento. All’interno della maggioranza di Governo tra democristiani da un lato e socialisti dall’altro (ai socialisti non è mancato in questa occasione il sia pure tiepido appoggio dei socialdemocratici, ma comunque il contrasto si è determinato soprattutto da democristiani e socialisti) si sono determinate nette divergenze di vedute su questo punto, essendo il gruppo democristiano, per motivi che mi sforzerò di illustrare, favorevole all’immediata abolizione del valore legale dei titoli di studio universitari, ed essendo il gruppo socialista contrario a tale abolizione. Non mi scandalizzo, signor ministro e onorevoli colleghi, per il fatto che all’interno della maggioranza, su un disegno di legge di questa importanza, abbiano potuto scoppiare contrasti fra Democrazia cristiana e Partito socialista: semmai mi sarei non dico scandalizzato ma stupito del contrario. Poiché tuttavia si tratta di un contrasto che riguarda uno dei punti fondamentali della legge, e considerato che tale divergenza di vedute è emersa negli interventi di alcuni oratori della Democrazia cristiana, appare opportuno occuparsi della questione, per vedere se per avventura il contrasto sia stato davvero superato o se viceversa sia destinato a riemergere.
Ecco dunque, onorevole Elkan, le ragioni per le quali ho voluto analizzare un’affermazione così grave come quella che ella ha fatto nella sua relazione di maggioranza, allorché ha scritto essere probabile che tra qualche anno si riproponga, nell’interesse dei giovani, il problema del valore legale dei titoli. Espliciti riferimenti a tale questione ho trovato nel discorso pronunziato in quest’ aula dal democristiano onorevole Spitella, che risulta essere il capo dell’ufficio scuola del suo partito: appunto per tale sua qualifica l’oratore del Partito socialista intervenuto nella discussione ha attribuito la posizione assunta dall’onorevole Spitella al partito della Democrazia cristiana e non soltanto al gruppo parlamentare democristiano della Camera. Ebbene, su tale argomento l’onorevole Spitella nella seduta del 25 ottobre (cito dal resoconto stenografico immediato) così si è espresso: «La Democrazia cristiana avrebbe voluto, come è noto, arrivare subito all’abolizione del valore legale dei titoli di laurea, ma essa non misconosce la presenza di complesse difficoltà che tale decisione comporterebbe, tiene in considerazione le ragioni addotte dagli altri partiti della coalizione e da vari settori della vita civile contro una decisione immediata di tale genere e considera altresì l’esigenza, in questo come in altri aspetti della legge, di conseguire qualche risultato immediato». Ancora più chiare le dichiarazioni che sono state fatte allo stesso riguardo dai colleghi Rognoni e Berté, sempre del gruppo della Democrazia cristiana.
Nella seduta del 29 ottobre scorso (cito ancora dalla stessa fonte), l’onorevole Rognoni ha fra l’altro dichiarato: «A questo punto, devo dire che non mi entusiasma troppo il quesito che si poneva l’onorevole Natta quando si domandava, chiosando l’intervento dell’onorevole Gui, a quale sbocco concreto potrà condurre l’orientamento da più parti testimoniato verso l’abolizione del valore legale del titolo. È un quesito inattuale, perché, per una serie di ragioni cui si è richiamato, tra l’altro, l’onorevole Spitella, se togliere il valore legale del titolo di studio è scelta che si innesta certamente nella linea di tendenza autonomistica dell’università, è anche vero che è difficile, oggi, non ricondurre questa scelta a una precisa posizione ideologica, mentre credo che in un contesto sociale diverso essa si porrà più modestamente, ma con maggiore efficacia, come un’operazione di semplice pulizia: si tratterà, cioè, di fare ordine nella legislazione universitaria cancellando un istituto divenuto insignificante; e ciò conformemente ad una concezione pragmatistica ed empirica cui si riconduce, per più di un aspetto, la stessa concezione dell’autonomia universitaria».
Fermiamoci qui. Che cosa si intende dire attraverso questo molto importante e, a mio parere, grave e dequalificante intervento dell’onorevole Rognoni? Si intende dire: manteniamo per ora in piedi il valore legale del titolo di studio universitario, perché altrimenti i socialisti ci combinano sopra una di quelle loro rituali minacce di crisi di governo oppure ci chiedono qualche altra cosa che ai socialisti in questo momento non intendiamo dare; però, non deduciamo dal mantenimento del valore legale del titolo di studio le conseguenze che si dovrebbero onestamente dedurre, cioè non tentiamo neppure, o comunque non contribuiamo a far sì che il titolo di studio universitario, mantenuto in vigore, venga qualificato o riqualificato; facciamo in modo che il titolo di studio rimanga in vigore e continui ad essere dequalificato e dequalificante, e in questa guida, fra qualche anno (ecco il senso preciso delle gravi parole dell’onorevole Rognoni), quando non più soltanto all’estero, ma anche in Italia sarà chiaro che le lauree conseguite nel 1971 o nel 1972 o per avventura nel 1975 o nel 1980 saranno davvero dei semplici «pezzi di carta» e non qualificheranno i giovani per entrare nella vita, nelle professioni, per rappresentare dignitosamente una nuova classe dirigente; quando questo sarà avvenuto, allora il titolo di studio si abolirà da sé; lasciamo che il titolo di studio si abolisca da sé, quindi truffiamo intere generazioni, immettiamole in una università sempre più dequalificata e dequalificante, accettiamo e facciamo nostra la logica del «peggio», e in questa guisa ad un certo punto arriverà qualcuno che con una «leggina», con un emendamento, farà pulizia. Questo dice l’onorevole Rognoni. Ma, se si vuol fare pulizia, se si ritiene di dover fare pulizia, perché non farla subito? Se il problema è tanto importante, secondo il gruppo della Democrazia cristiana, secondo il partito della Democrazia cristiana, si tratta addirittura di un problema di pulizia… “
ROGNONI: “È una pulizia non ancora attuale. “
ALMIRANTE: “Proprio per questo voglio parlare. Voglio chiedere a me stesso siccome questo è un colloquio ad armi cortesi e spero di poter avere dei chiarimenti per la mia coscienza perché non sia attuale. Intanto, avvalendomi delle vostre stesse dichiarazioni, sto documentando che si tratta, secondo voi, di un problema di pulizia, vale a dire che il titolo di studio, così come oggi viene rilasciato dall’università e così come in un prossimo avvenire continuerà ad essere rilasciato è un titolo di studio dequalificante per l’università e non qualificante per i giovani. Senza dubbio voi state sostenendo proprio questo. State sostenendo altresì che per motivi di compromesso politico non conviene in questo momento o non vi è possibile affrontare l’argomento decidendo in maniera diversa; voi rinviate la decisione, ma non la rinviate ad una ferma, anche se futura, presa di posizione, ad una vostra volontà politica, ad un vostro disegno, ad un vostro orientamento: no, rinviate la soluzione del problema a quando il problema sarà diventato di per sé così grave e il mantenimento dell’attuale ordine-disordine sarà diventato di per sé talmente intollerabile che qualcuno dovrà pur fare pulizia. Ciò significa che tutto quel che sta di mezzo secondo voi e non secondo noi tra l’entrata in vigore di una riforma universitaria siffatta ed il momento in cui si farà pulizia, è sporcizia; ciò significa che, per ragioni di compromesso politico, voi votate la sporcizia a carico di intere generazioni di giovani; ciò significa che voi dannate intere generazioni di giovani, secondo la vostra tesi, a diventare degli spostati professionali e sociali, e quindi morali. Questo emerge, ed emerge in guisa talmente grave che l’onorevole Rognoni, che non mi risulta sia stato smentito da alcun collega della Democrazia cristiana, ne trae una specie di filosofia e dice, come ho già letto: «…e ciò conformemente ad una concezione pragmatistica ed empirica, cui si riconduce, per più di un aspetto, la stessa concezione dell’autonomia universitaria». È veramente sorprendente questo gruppo della Democrazia cristiana, questo partito della Democrazia cristiana, che quando si affronta in quest’aula, in Parlamento, uno dei temi classici, quello della scuola intorno al quale esso, l’erede del vecchio partito popolare, aveva veramente qualche cosa da dire (lo affermo al di là di ogni polemica) con la pienezza di autorità e la capacità di magistero che hanno contraddistinto memorabili interventi di alcuni dei suoi uomini più prestigiosi, anche in questo dibattito lo presenta oggi come un tema da affidare al pragmatismo e all’empirismo! Sicché, empiricamente, pragmatisticamente, si approva oggi una riforma che si riconosce manchevole in uno dei suoi aspetti di fondo e la si approva pur riconoscendo che è manchevole o addirittura sporca o truffaldina uso le vostre parole per fare onore ad un compromesso con il Partito socialista italiano. Cioè, secondo questo pragmatistico ed empirico partito della Democrazia cristiana, prima di tutto va salvaguardato l’accordo con il Partito socialista italiano e poi il destino… “
ROGNONI: “Questo non è più un garbato colloquio fra parlamentari. Ella distorce completamente il mio giudizio e la mia opinione. “
ALMIRANTE: “Se le sono sembrato sgarbato le chiedo scusa, ma le sue parole sono state quelle che ho ripetuto. “
ROGNONI: “Ella trascura il contesto generale del mio discorso. “
ALMIRANTE: “No, onorevole Rognoni, ho letto tutto il suo discorso e non ho ancora finito, perché debbo cercare anche di chiarire quali sono, secondo me, le vostre intenzioni. Debbo cercare di capirle, anche perché su questo punto, cioè sul mantenimento del valore legale del titolo di studio, il mio atteggiamento, l’atteggiamento responsabile del mio partito, per motivi che intendo chiarire, è identico, guarda caso, all’atteggiamento che emerge dalla legge. Io non sono per l’abolizione del valore legale del titolo di studio, ma almeno ho il coraggio di dichiararlo, me ne assumo la responsabilità, spiego i motivi per i quali io, il mio gruppo, il mio partito, che ho l’onore di rappresentare, siamo contrari all’abolizione del valore legale del titolo di studio; mi sono dato carico c’è qualche collega liberale che lo sa personalmente; non è vero, onorevole Giorno? di avere anche una conversazione privata con qualche deputato del gruppo liberale per cercare di capire fino in fondo l’atteggiamento liberale, che è rispettabilissimo e che è stato sostenuto con dovizia di interventi; ma non mi arrischierei mai di dire: noi siamo favorevoli al mantenimento del valore legale del titolo di studio universitario in questo momento, pur essendo in coscienza contrari. Io sono in coscienza favorevole e cerco di spiegarne i motivi, ma apprezzo coloro che in coscienza sono contrari e lo hanno chiarito e presentano i loro emendamenti al riguardo, mentre non riesco ad apprezzare coloro che sono contrari, che lo dichiarano, che lo fanno intravedere nella relazione per la maggioranza, che lo ripetono nei loro interventi, che ammettono che si tratta di un compromesso non pulito quanto al destino dei giovani, ma che poi vengono a parlare di entusiasmo e di pragmatismo. Empirismo sulla pelle di chi? Tentativi, esperimenti, sulla pelle di chi? Sulla pelle dei giovani, sulla pelle delle generazioni che si accingono a frequentare questa università cosiddetta riformata. Analizziamo allora ancora meglio questo singolare atteggiamento della Democrazia cristiana. Se la Democrazia cristiana dichiara: noi siamo contrari al mantenimento del valore legale dei titoli di studio, non soltanto perché i titoli di studio oggi sono dequalificati in una università che non funziona a questo fine, ma anche perché la nostra concezione dell’università autonoma, dell’università libera, di una università che non sia soggetta allo Stato neppure quanto agli indirizzi di carattere generale (riprenderemo in seguito questo argomento), neppure come orientamento, neppure come controllo, ci porta ad una università che non conceda titoli di studio validi secondo la legge dello Stato; se la Democrazia cristiana dice questo, se essa si orienta e cerca di orientarci lungo una sua rispettabilissima tradizione e direttiva, alla quale noi siamo contrari ma che riteniamo faccia parte della più nobile tradizione italiana, se è vero, com’è vero, che siamo qui chiamati ciascuno a rispecchiare una componente di quella che è, nel suo complesso, la tradizione culturale italiana, allora potrei essere d’accordo.
Ma quando la Democrazia cristiana ci viene a dire, primo, di essere nel suo intimo contraria al valore legale dei titoli di studio; secondo, di aver accettato un compromesso per motivi politici con il Partito socialista a questo riguardo; terzo, di tenere in serbo però il proprio punto di vista, e di sperare di farlo prevalere tra qualche anno nell’interesse dei giovani (e quindi questa legge, così com’è ora, è contro l’interesse dei giovani, onorevole Elkan!); quando la Democrazia cristiana arriva a dire ripeto e insisto che, nell’interesse dei giovani, tra qualche anno si farà pulizia, e quando, per giustificare tutto ciò, la Democrazia cristiana parla di un atteggiamento empirico, allora la mia indignazione non si ferma qui, perché diventerà l’indignazione di generazioni intere di ragazzi e di docenti ai quali si prospettano tesi di questo genere; la mia indignazione è pienamente fondata, anche se viene espressa lo ripeto ed insisto in termini che, nelle mie intenzioni per lo meno, sono impersonali, garbati, cortesi e corretti. A questo punto mi corre l’obbligo di chiarire il nostro atteggiamento a proposito di questo fondamentale problema; e poiché ho dato atto ai colleghi di parte liberale della correttezza del loro atteggiamento, devo precisare che il loro atteggiamento è corretto, che è pienamente giustificato dalle condizioni nelle quali la scuola italiana, e l’università in particolare, vivono in questo momento, ma che pur non arrischiandomi assolutamente a voler interpretare una tradizione della quale i liberali sono i gelosi custodi e gli interpreti mi stupisco un poco, ecco, mi stupisco un poco, se guardo ai lineamenti di fondo del loro atteggiamento e di quello di tutti coloro che vogliono negare il valore legale dei titoli di studio universitari, mi stupisco un poco che proprio da parte liberale provenga una simile richiesta. Se la vostra richiesta, colleghi liberali, si riferisce all’attualità della situazione universitaria italiana, avete ragione; se essa si riferisce al contesto di questa legge, così com’è stata sciaguratamente preparata, potete avere senz’altro ragione; ma se si riferisce alle tradizioni liberali quali le ho studiate sui banchi della scuola, ed anche dell’università, allora mi sembra che abbiate un po’ meno ragione, e cioè mi sembra che dovreste convenire con noi circa una considerazione obiettiva ed onesta: cosa accadrebbe il giorno in cui si sanzionasse per legge l’abolizione del valore legale dei titoli di studio universitari? Uno tra voi lo ha nobilmente detto, in uno dei tanti interventi che avete svolto; uno tra voi ha detto che l’università italiana salirebbe ad altissimo livello scientifico, perché se scienza è cultura, se scienza e cultura sono umanesimo, allora avremmo una università umanistica davvero, nel senso più alto del termine, con il massimo disinteresse da parte dei docenti, con il massimo disinteresse da parte dei discenti. Attenzione, però, perché la parola «disinteresse» può essere interpretata in due sensi, può avere due significati: si può essere «disinteressati» nei confronti del pragmatismo di tutti i giorni in quanto si abbiano interessi più alti, più vasti, interessi universali; ma si può essere «disinteressati» in quanto privi di interesse. Non vi sembra, onorevoli colleghi di parte liberale e onorevoli colleghi di tutte le parti politiche che possono sostenere o aver sostenuto la tesi dell’abolizione del valore legale del titolo di studio universitario, non vi sembra che una università di tal genere sarebbe talmente disinteressata da non interessare più alcuno? “
COTTONE: “Questo è un puro sofisma. Ella è troppo intelligente per non sapere che questo è un classico sofisma da manuale. “
ALMIRANTE: “Non è un sofisma, è una domanda che pongo.
L’altra è una domanda che io pongo alla vostra coscienza ed alla vostra intelligenza, perché mi sono sforzato di porla alla mia coscienza, e mi è accaduto di dare una risposta contraria a quella che avete dato voi. Penso non ci sia nulla di male. Ecco, io mi sono posto questo quesito, ed ho risposto a me stesso e continuo a rispondere a me stesso che uno tra i problemi che stiamo affrontando essendo quello (e a questo proposito siamo tutti d’accordo, ritengo) di una ripresa di contatto fra scuola (e, in particolare, università) e società; essendo il massimo dei problemi che ci siamo proposti quello di reinserire l’università nella società, di farne l’espressione migliore e più alta, il vertice morale e culturale, affinché i contenuti della società come direbbe il nostro De Sanctis si calino nella università e quest’ultima si cali, a sua volta, nella società; essendo questo il problema, a mio avviso (ed esprimo un parere in piena coscienza, e davvero disinteressato spero me ne diate atto perché non ci sono, in questo caso, manovre politiche di alcun genere), una università che non concedesse titoli di studio validi per entrare nella società, per esercitare nobilmente la professione e per esercitare nobilmente quella che è la grande arte del ricercatore, che deve essere inserito nella società, una università siffatta finirebbe per non interessare più alcuno nella società attuale, non essendo possibile né pensabile fare un salto all’indietro di secoli e secoli, per tornare a quelle che erano università inserite in diversi tipi di società, non paragonabili sia le università che le società con quelle attuali. “
GIOMO: “Se l’onorevole Almirante me lo permette, dirò che, nella vita precedente del Partito liberale, abbiamo l’esempio di due uomini politici che hanno onorato il nostro partito nel campo della scienza senza avere un titolo di studio: Benedetto Croce non è mai stato laureato in filosofia ed Epicarmo Corbino non è mai stato laureato in economia. Benedetto Croce è stato uno dei più grandi filosofi italiani ed Epicarmo Corbino è stato professore di scienza delle finanze.”
FODERARO: “Ma quanti Benedetto Croce ed Epicarmo Corbino abbiamo in Italia?”
ALMIRANTE: “Onorevole Giorno, io ne aggiungerò un terzo, di cui ho appreso la vicenda scolastica proprio durante l’intervento dell’onorevole Bignardi nel corso della discussione sulle linee generali. Guglielmo Marconi fu cacciato da scuola, e non si laureò; ma penso che, pur non facendo egli parte della tradizione liberale, avendo fatto parte dell’accademia creata in tempo fascista, lo onoriamo tutti come un grande scienziato. Però questi esempi non solo non confortano la vostra tesi, ma proprio per il fatto di essere citati come eccezioni, come cime svettanti (di questi grandissimi nomi non se ne possono citare molti altri), stanno a dimostrare che la vostra tesi non è attuale. Inoltre, non vogliamo marciare verso il collettivismo (almeno noi, nonché una larga parte dei colleghi presenti in quest’aula), verso una cultura o una civiltà collettivizzata; ma non possiamo nascondere a noi stessi che quando da altre parti ci si richiama all’importanza del lavoro e della ricerca di équipe, specie per quanto attiene alle facoltà scientifiche o ai dipartimenti scientifici, ci si richiama a un fatto di grande importanza. Come potete immaginare che si giunga a creare delle équipes di ricercatori e di scienziati, o anche che si riesca a creare quell’humus umanistico e culturale dal quale possano poi svettare le grandi eccezioni, in una università che sia dequalificata attraverso l’ammissione del principio che il suo titolo di studio non ha più valore legale e non serve ad immettere i giovani nelle professioni e nelle arti? Non vi è bisogno di dilungarsi oltre, perché nel dibattito il nostro atteggiamento a questo riguardo è già apparso chiaro. Ho preso atto dell’atteggiamento diverso che è stato assunto da altre parti, mi pare, onestamente e chiaramente. Mi duole non poter prendere atto di un atteggiamento serio e responsabile da parte del gruppo su cui gravano le maggiori responsabilità, ossia quello della Democrazia cristiana. Per continuare con la Democrazia cristiana (cioè, con la parte ufficiale di essa), debbo tornare per un momento sull’importante discorso pronunciato dall’onorevole Spitella, perché ho l’impressione che egli sia stato il solo fra i parlamentari della Democrazia cristiana a tentare di interpretare addirittura ideologicamente l’atteggiamento tenuto dalla Democrazia cristiana a proposito di questi argomenti. Sono molto lieto che l’onorevole Spitella sia qui presente e possa constatare che ho sott’occhio il suo testo già citato, che mi ha molto interessato. Egli dice: «Ecco gli elementi per cui l’università proposta in questa riforma si contrappone a quella ottocentesca e si riconduce, per certi aspetti, alle libere università medioevali: l’autonomia e l’iniziativa delle universitates… l’assenza di un corpo docente che riceva quasi una consacrazione statale e sia l’espressione tendenzialmente etica dello Stato… la presenza, invece, di una pluralità di docenti che nella libera esplicazione della loro opera di scienziati e di maestri realizzino una pluralità di interpretazione e propongano una molteplicità di soluzioni, che è caratteristica essenziale della cultura contemporanea». Aggiunge poi che vi è una intima connessione tra le considerazioni espresse sul nuovo rapporto tra Stato e università e quelle espresse sull’analogia con le istituzioni medioevali, e che «tale connessione è rappresentata dalla crisi dello statalismo, totalitario anche quando si professa liberale». Questa è una affermazione veramente interessante per noi. E l’onorevole Spitella prosegue «… dal ritorno ad una concezione dello Stato come organizzazione di garanzia, dal ritorno ad una cultura non esclusivistica e dogmaticamente illuministica, ma aperta ad una pluralità di interpretazioni, tra le quali quella religiosa ha un suo ruolo preciso e fecondo».
Come cattolico io la ringrazio, onorevole Spitella, per il posto conferito alla interpretazione religiosa e al ruolo dell’interpretazione religiosa, come cittadino italiano e come modestissimo dopo tutti cultore di questi gravi problemi, io chiedo (non perché ella debba avere la bontà di rispondere, chiedo come al solito alla mia coscienza cercando di trovare la risposta) se la sua polemica contro l’Ottocento e contro lo statalismo e il richiamo veramente nostalgico (nostalgie consentite, ma un poco lontane) alle università del medioevo, non nascondano per avventura la ripresa di una polemica clericale svoltasi durante tutto l’Ottocento e anche nel corso del Novecento e di cui si avverte in questo caso una certa ripresa, che non ci fa piacere, non contro lo statalismo, ma contro lo Stato.
Onorevole Spitella, sul fatto che nell’università debba esservi una pluralità o un pluralismo di insegnanti e quindi anche di dottrine liberamente espresse, nulla quaestio. Nessuno, da nessuna parte politica più o meno sinceramente (non voglio indagare sulle intenzioni), ma nessuno in questo momento, in questo Parlamento, dalla destra fino alla estrema sinistra desidera una università di Stato. Mi permetto di ricordarlo perché lo hanno ricordato tutti coloro che sono intervenuti con una certa profondità di pensiero in questo dibattito; quando mi riferisco alla autonomia universitaria posso risalire tranquillamente, come ella sa, al 1923 e quindi sono perfettamente in regola. Nessuno tra noi desidera, postula, vuole o dice di volere una università di Stato. Ma tra il non volere una università di Stato e l’escludere ogni responsabilità dello Stato come promotore di cultura, come garante di promozione culturale, c’è una certa differenza. “
SPITELLA: “Ho parlato di Stato organizzatore di garanzia. “
ALMIRANTE: “Sì, di Stato organizzatore di garanzia. Voi siete veramente bravi, debbo riconoscerlo: quando volete trovare il modo per eludere con una formula ciò che volete eludere senza assumerne la responsabilità, voi siete bravissimi. Mi rendo conto che volendo lei accusare perfino i liberali di essere totalitari quando parlano dello Stato, lei non poteva parlare di Stato garantista perché sarebbe in corso in una tipica formula della tradizione liberale. Ed ancora lei ha detto «Stato organizzatore di garanzia». Onorevole Spitella, se lo Stato «organizzatore di garanzia» è lo Stato che secondo voi si esprime attraverso una legislazione di questo genere, cioè attraverso una legge, come lo stesso relatore di maggioranza ha avvertito, che è più un regolamento che una legge; se lo Stato «organizzatore di garanzia» dovesse in prospettiva stralciare con un’altra legge il valore legale del titolo di studio universitario; se lo Stato «organizzatore di garanzia» dovesse poi far consistere l’organizzazione della garanzia nella mancanza di ogni garanzia; se l’articolazione dovesse diventare disordine, come è già; se il pluralismo dovesse diventare disarticolazione, come è già, allora non avrei torto nel ritenere per vero quello che mi è sembrato, quello che ho sospettato, onorevole Spitella (e se ella me lo smentisce, ne sono ben lieto), e cioè che la sua polemica o addirittura la vostra polemica di partito non sia contro lo statalismo, ma sia contro lo Stato. Ora, legiferare in merito ad una riforma universitaria fuori dello Stato o contro lo Stato sarebbe un pericoloso errore, qualunque sia la dottrina, come sarebbe un errore dal quale si traggono le mosse, ritenere di poter tornare dalla università tipo Ottocento, quella gloriosa università che ci ha fatti italiani, onorevole Spitella (mi permetterò di ricordarlo più avanti; non è retorica, mi sia consentito: l’università di Francesco De Sanctis ci ha fatti veramente italiani)… “
SPITELLA: “L’ho riconosciuto anch’io. “
ALMIRANTE: “…il voler pensare di passar sopra all’università dell’Ottocento per ritornare alle universitates medioevali, nelle quali c’era il pluralismo, d’accordo, ma c’era una unità di ispirazione, onorevole Spitella, che ha fatto gloriosa, che ha fatto una la nostra civiltà! Ciò che, attraverso le università, ha fatto una la nostra nazione nell’Ottocento, ha fatto una la nostra civiltà nei tempi di Dante. Mi pare che questa forza unitaria dell’università, forza unitaria addirittura spirituale e civile nel medioevo, forza unitaria nazionale e ancora civile nell’Ottocento, debba essere avvicinata. La vostra, la nostra ambizione comune non dovrebbe essere quella di passar sopra alla gloriosa università dell’Ottocento per ritornare ritorno impossibile ai modelli dell’università medioevale; la nostra ambizione dovrebbe essere quella di riannodare la università del Novecento, la università degli anni ’70, alla università dell’Ottocento e a quella medioevale, per rifare una l’Italia nella civiltà in un momento di pericolosa crisi delle giovani generazioni. Se non siamo d’accordo su questo, allora manca a questa riforma ogni ispirazione morale, che è proprio l’appunto più pesante che a questa riforma ci permettiamo di fare.
E adesso mi debbo occupare e, per verità, confesso, senza offesa per alcuno, me ne occupo un po’ più volentieri dei colleghi della Democrazia cristiana che sono intervenuti in opposizione a questo disegno di legge. Io sono certo che l’onorevole ministro risponderà agli eminenti colleghi della Democrazia cristiana che hanno pronunziato discorsi di garbata, di correttissima, ma di vera e propria opposizione a questo disegno di legge. Io non penso di avere il compito di replicare; penso di avere, modestamente, come relatore di minoranza, il compito e anche l’opportunità di rilevare ciò che è stato detto, e che non deve andar perduto, nel quadro di questa discussione, almeno per quanto concerne la nostra doverosa attenzione. Il discorso che, senza fare torto agli altri, mi è apparso più significativo tra i discorsi di opposizione che sono stati pronunciati in quest’aula, lo ha pronunciato senza dubbio l’ onorevole Gui. Lo ha pronunciato l’onorevole Gui, anche per la sua qualità di ex ministro della Pubblica istruzione; e anche per la sua qualità di ex ministro della Pubblica istruzione, ahimè, bocciato dal Parlamento o dai partiti o dal suo stesso partito nel tentativo, anni or sono, di dar vita a una riforma universitaria. Ci voleva del coraggio politico da parte dell’onorevole Gui per intervenire in questo dibattito. Abbiamo notato, direi anche fisicamente, la difficoltà nella quale egli si trovava, la nobiltà e la correttezza con cui egli si è comportato nei confronti di un ministro che gli è succeduto nel tempo e che sembra possa aver miglior fortuna nei confronti di un disegno di legge di riforma universitaria.
Il discorso dell’onorevole Gui potrebbe essere definito correttamente il discorso delle contraddizioni. Non il discorso delle contraddizioni dell’onorevole Gui, ma il discorso delle contraddizioni che il discorso dell’onorevole Gui ha fatto scoppiare all’interno del disegno di legge sulla riforma universitaria portato avanti dall’onorevole Misasi. Io ho preso nota, spero diligente, delle contraddizioni che l’onorevole Gui ha rilevato in questo disegno di legge; non tanto nelle singole norme del disegno di legge, quanto nello spirito informatore del disegno di legge. Mi sembra che l’onorevole Gui abbia messo in luce almeno sei contraddizioni, la contraddizione tra autonomia universitaria e statalismo, la contraddizione tra titolo di studio di Stato e libertà dei piani di studio, la contraddizione tra liberalizzazione dell’accesso alla università e titolo universitario di Stato, la contraddizione tra regionalismo, nella funzione che gli si vorrebbe dare, e funzione dello Stato, la contraddizione tra le vecchie e le nuove baronie o per dir meglio l’inserirsi delle nuove baronie sulle vecchie, che dovrebbero essere tolte di mezzo e la contraddizione tra un vero progresso sociale ed un fittizio progresso sociale. Mi permetterò di fare qualche rapida citazione per mettere in rilievo quale sia l’importanza di queste contraddizioni rilevate dall’onorevole Gui, e per pregare cortesemente l’onorevole ministro di aiutarci a sciogliere questi nodi.
La prima e forse più grave contraddizione, è stata rilevata come dicevo prima tra autonomia universitaria e statalismo. Ha detto l’onorevole Gui il 21 ottobre in quest’aula (cito sempre dal resoconto stenografico immediato): «Avremo quindi università autonome dello Stato…, i cui poteri effettivi però distribuiranno i titoli di Stato». E ha aggiunto l’onorevole Gui: «In conclusione, a me pare che il disegno di legge rimanga in bilico, in qualche modo contraddittoriamente: adotta entrambe le logiche, sia pure con la prevalenza di quella dell’autonomia…». A noi sembra che sia proprio così, onorevole Misasi. Ella sa quello che è risultato dal divertente calcolo attribuito al calcolatore elettronico di Pisa; il calcolatore non so come vengano fatte simili operazioni, ma il Presidente Pertini ce lo dirà il giorno in cui ci spiegherà come funzionano quei tabelloni che sono appesi alle pareti ha effettuato un’operazione in base alla quale è risultato che le attribuzioni del Ministero della pubblica istruzione emergenti da questo disegno di legge sono assai più numerose (non voglio dire più importanti, perché sin qui forse neppure un calcolatore elettronico può arrivare) di quanto non siano state in precedenza, in base a tutta la legislazione del passato, non esclusa quella del tempo fascista. È uno strano andare innanzi, verso l’autonomia, quello che consiste nell’ accentuare la dipendenza delle università autonome dallo Stato. Qualcuno fra gli intervenuti, mi pare l’onorevole Lucifredi (e mi perdoni, onorevole Lucifredi, se sbaglio nella citazione), ha detto che è sommamente divertente la norma inserita in questa legge, in base alla quale non soltanto le università autonome, che per comodità possiamo chiamare statali, dipendono dallo Stato attraverso tutta una serie articolata di disposizioni, ma le università libere possono essere costituite soltanto mediante autorizzazione, con timbri e carta da bollo dello Stato. Questa è vero, onorevole Lucifredi è una delle cose più amene che mettono in luce e ha ragione l’onorevole Gui la contraddizione di fondo che pervade tutto questo disegno di legge. Con ciò non voglio dire che la nostra parte politica sia più favorevole ad uno statalismo più accentuato; intendo dire che voi non sapete quello che volete, e che volete tutto perché la legge è nata come tutte le leggi che nascono in questo clima ed in questo sistema da una serie di compromessi. E finché i compromessi si verificano in materia politica, o per altro tipo ed ordine di riforme, che attengono alla economia, non dirò pazienza, dirò male, ma si tratta comunque di problemi solubili in un divenire forse non remoto; ma quando i compromessi attengono alla materia dello spirito, della cultura, allora penso che i compromessi siano indecorosi. Così l’onorevole Gui ha rilevato l’antinomia tra il titolo di Stato e l’indiscriminata libertà dei piani di studio. Come può lo Stato mettere il proprio sigillo, un sigillo indiscriminato, quando è indiscriminata la libertà dei piani di studio? Come può essere eguale nella sua validità (ed eguale diventa per legge) un titolo di studio conferito allo studente tale o allo studente talaltro, quando si sappia che lo studente tale, attraverso la indiscriminata libertà dei piani di studio, ha facoltà di conseguire quello stesso titolo, quello stesso pezzo di carta, con uno sforzo infinitamente inferiore e quindi con un sapere conseguito infinitamente inferiore e più fragile di quello conseguito dal collega che ha scelto piani di studio di ben diversa mole? Anche qui mi sembra che la contraddizione rilevata dall’onorevole Gui esiste veramente.
E la contraddizione fra liberalizzazione degli accessi all’università e titolo di studio statale? Dice l’onorevole Gui: «Così, anche la liberalizzazione assoluta delle provenienze per l’accesso all’università, se da un lato ha rappresentato un elemento certamente democratico, una spinta in senso popolare per l’accesso agli studi universitari…, dall’ altro non è stata coerente con la logica profonda delle nostre istituzioni universitarie. Anzi è stato un elemento di contraddizione…».
E le regioni? Dice l’onorevole Gui (e lo dice l’onorevole Gui regionalista se lo dicessi io, solleverei scandalo. Io ricordo che, quando discutemmo delle regioni, l’onorevole Gui non dico che fu uno fra i più accaniti, ma comunque fra i più convinti penso di esprimermi correttamente sostenitori del regionalismo): «Abbiamo introdotto le regioni; abbiamo decentrato alcuni poteri dello Stato alle comunità regionali. Ma nessuno di noi si è sognato di decentrare alle regioni dei poteri grazie ai quali, legiferando, esse possono emettere leggi valide su tutto il territorio nazionale. Le regioni promuovono leggi valide per le regioni stesse; così ogni università dovrebbe emettere titoli di studio validi per quella università». E se per avventura, come molti colleghi hanno proposto, soprattutto da sinistra, i poteri delle regioni dovessero essere estesi all’ambito universitario, si dovrebbe stare bene attenti affinché le regioni non emettano norme universitarie valide da quella università per tutto il territorio nazionale, in quanto il detentore di un titolo di studio rilasciato da una qualsivoglia università, sulla base di norme diverse da quelle valide per le altre università, sarebbe portatore di diritti validi in tutto il territorio nazionale. Anche questa ci sembra una pesante contraddizione.
Quanto alle baronie, anche qui per non essere sospetto io leggo quanto ha detto l’onorevole Gui: «… in certo modo, con esso» (cioè con questo disegno di legge) «tutte le componenti universitarie diventano “baroni”, perché tutti esercitano un potere statuale senza controlli e senza risponderne ad alcuno. Si tratta, quindi, di una forma di irresponsabilità cui vengono spinti gli organi universitari, con la conservazione di tale contraddizione». Singolare: un disegno di legge anti-baronie il quale si conclude con la promozione, con la estensione, direi con la collettivizzazione delle baronie. È un pesante giudizio che noi riteniamo di condividere e siamo sicuri che l’onorevole ministro vorrà dare dei cortesi chiarimenti al riguardo. Ma di tutte le osservazioni fatte dall’onorevole Gui, quella che più mi ha colpito è l’ultima, quando egli dice: «… io penso anche alla delusione dei figli dei poveri, finalmente pervenuti faticosamente al traguardo universitario, che poi si ritroveranno nelle mani un titolo con un valore sostanzialmente limitatissimo». Siccome questa riforma, onorevole Misasi, è una riforma altamente sociale, perché liberalizza l’accesso all’università, perché democratizza l’organizzazione dell’università, perché non è una riforma classista in senso di destra, perché è una riforma che vuole consentire ai figli degli operai e dei contadini hanno detto i colleghi dell’estrema sinistra di godere degli stessi diritti di tutti gli altri giovani, ecco, io insieme con l’onorevole Gui penso al destino dei figli dei poveri i quali faranno tanta fatica per accedere all’università, si vedranno schiuse le porte del paradiso e, invece di salire su nei cieli, si troveranno nemmeno all’inferno, ma nel pre inferno, tra gli ignavi, senza infamia e senza lode, perché voti di lode non ce ne saranno davvero e voti di infamia non ce ne potranno essere, e gireranno, proprio come gli ignavi danteschi, dietro ad uno straccio, che naturalmente sarà uno straccio rosso, come tutti gli stracci dei quali è infetta l’attuale società culturale italiana.
Io penso che sul discorso pronunciato dall’onorevole Gui valesse la pena di soffermarsi, come vale la pena di soffermarsi sul discorso pronunciato dall’onorevole Lucifredi. E, come ho definito il discorso dell’onorevole Gui il discorso che ha fatto scoppiare le contraddizioni di questa legge, mi permetto, correttamente, di definire il discorso dell’onorevole Lucifredi come il discorso della moralità del docente. Io ho sentito nelle parole dell’onorevole Lucifredi l’accoramento non soltanto, anzi non tanto, del collega da tanti anni parlamentare, quanto del docente, anche e soprattutto perché l’onorevole Lucifredi ha dichiarato e io spero che non mantenga il proposito che questa è l’ultima legislatura alla quale avrebbe partecipato. Infatti, poiché si pone la incompatibilità fra docente universitario e parlamentare, preferisce lasciare le aule parlamentari e dedicarsi per sempre all’insegnamento. Questa dichiarazione se l’onorevole Lucifredi me lo consente- d’, avversario politico. Mi ha commosso, quanto la dichiarazione dell’ onorevole GUI a proposito dei figli dei poveri. Ecco, da un lato, questa riforma universitaria vista nei suoi effetti di base, dall’ atro,questa riforma universitaria vista nei suoi effetti di vertice. Da un lato,, i ragazzi dei poveri che otterranno dei pezzi di carta che ne faranno degli spostati e, dall’ altro, i docenti illustri, soprattutto, ma a parte questo i docenti coscienziosi che hanno dedicato alla università, alla cattedra e all’ insegnamento tutta la loro vita- che si sentono dire da un complesso di parlamentari cui la cultura di solito non arride che, siccome sono uomini di cultura, siccome sono docenti, siccome credono nella università, siccome hanno vissuto nell’università, siccome hanno vinto i loro concorsi, siccome sono stati apprezzati dagli alunni, siccome non sono stati contestati e gli alunni non sono capaci neppure ora di contestarli, li contesta un Parlamento al quale si accede anche se analfabeti, perché la prova di alfabetismo non esiste, un Parlamento nel quale non si parla, ma si legge e, molto spesso, si leggono discorsi scritti da altri. Questo Parlamento si arroga il diritto, onorevole Ministro, di cacciare, di eliminare i docenti per incompatibilità o, per lo meno, di metterli in condizioni di effettuare una dolorosa scelta come è il caso dell’onorevole Lucifredi. Io non sono docente universitario; sono stato un modestissimo insegnante di liceo: quindi, non parlo certamente per me. Dunque, un Parlamento che, essendo così fiorito di cultura e di personalità culturali e di grandi docenti, si permette di eliminare con un tratto di penna di un ministro o di una coalizione di Governo, per dare ascolto a qualche partito estremista in senso di sinistra, quel tanto o quel poco di cultura che vi aleggiava e che ci rendeva sopportabili talune interminabili sedute parlamentari.
Ecco, io ho apprezzato in questo senso il discorso che ha pronunziato l’onorevole Lucifredi, e mi ha ancor più impressionato il fatto che il collega abbia dichiarato di parlare non soltanto come docente, ma anche come rettore. L’unico che noi abbiamo l’onore, per adesso, finché non lo cacceremo, di avere in quest’aula. L’onorevole Lucifredi ha citato le deliberazioni o per dir meglio le raccomandazioni della conferenza nazionale dei rettori, unanime nel sostenere determinate tesi di critica di fondo nei confronti di questa riforma; tesi, per altro, che, provenendo dai rettori, non meritavano almeno così sembra di essere ascoltate. Si ha, cioè, nei confronti dei docenti, e dei rettori in particolare, ancora meno rispetto di quello che hanno taluni studenti contestatori nei confronti dei loro docenti. Non sono stati neppure contestati: non li ascoltano, non rispondono loro. Non credo che esista agli atti del Ministero della pubblica istruzione una risposta ufficiale alle raccomandazioni della conferenza dei rettori. “
MISASI:(Ministro della pubblica istruzione) “C’è stata la presenza assidua del ministro alla conferenza dei rettori. “
ALMIRANTE: “Ma la presenza è una risposta ufficiale?”
MISASI: “La presenza e la partecipazione. “
ALMIRANTE: “Ma i rettori hanno parlato prima, nel corso della lunga elaborazione di questo disegno di legge. I rettori, il Consiglio superiore della pubblica istruzione, l’organizzazione nazionale degli insegnanti universitari di ruolo, singoli insegnanti di ruolo, ai quali mi sono permesso di richiedere l’onore di poter parlare per essere informato circa questo provvedimento, si sono rivolti all’attenzione dell’onorevole ministro della Pubblica istruzione per avere una risposta. Credo che nessuno di loro l’abbia avuta. Certo, onorevole ministro, ella risponderà in questa sede, ne sono pienamente convinto, perché ella si assume le sue responsabilità. Ma se questo Parlamento dovesse davvero essere un organo di partecipazione, almeno a livello culturale, penso che ella avrebbe mancato ai suoi doveri non consentendo ai competenti di partecipare alla elaborazione di questo così importante disegno di legge. Abbiamo ascoltato un importante discorso di opposizione da parte dell’onorevole Riccio il quale si è lanciato sono parole sue che io non mi permetterei di usare contro la posizione «ipocrita e demagogica» di coloro che hanno formulato, presentato e sostenuto questo disegno di legge. Ipocrita e demagogica sono due aggettivi, uno solo dei quali basterebbe a sotterrare un ministro e un intero Governo, quando sono pronunciati da un docente in quest’aula senza, mi sembra, un contraddittorio adeguato. Infine abbiamo ascoltato con interesse il discorso di pesante opposizione formulato, sempre per quanto riguarda il gruppo della Democrazia cristiana, dall’onorevole Greggi, il quale ha dichiarato che questa riforma «istituzionalizza il caos o il rischio del caso», e addirittura che questa riforma «introduce i soviet» nell’università. Avendo così cercato di interpretare le tesi dei non molti colleghi della Democrazia cristiana che si sono espressi in favore di questa riforma e avendo messo in luce le tesi, gli addebiti, le accuse, le critiche dei colleghi della Democrazia cristiana che si sono pronunziati contro questa riforma, credo di avere adempiuto al mio ufficio di relatore di minoranza e di avere anche rilevato con obiettività che si tratta di un disegno di legge largamente non condiviso da coloro che avrebbero dovuto, invece, in quest’aula, se ne fossero stati convinti, sostenerlo.
Comunque mi permetto di non dire e lo faccio in assenza dell’onorevole Andreotti, per non comprometterlo, perché se arrivasse l’onorevole Andreotti non lo comprometterei con un mio riconoscimento (i riconoscimenti ce li possiamo scambiare soltanto alla televisione, con l’onorevole Andreotti, non certamente, da qualche tempo a questa parte, nelle aule parlamentari) che il gruppo della Democrazia cristiana si è impegnato massicciamente in questo dibattito, distinguendosi, come dicevo all’inizio, dal resto della quasi silenziosa maggioranza: socialisti, repubblicani e socialdemocratici, i quali nel loro insieme hanno ritenuto di condividere la tesi sostenuta con maggiore impegno e con maggiore serietà dal gruppo comunista, secondo la quale la legge «non va, ma bisogna far presto». I comunisti, per lo meno, dicono che la legge non va ma bisogna far presto: i socialdemocratici, i repubblicani e i socialisti dicono che la legge va benino (secondo i socialisti), va malino (secondo i socialdemocratici), va maluccio o quasi, o decisamente male (secondo i repubblicani), ma bisogna far presto. Sicché signor ministro, io non sono nella condizione di spiegare a me stesso, e tanto meno a lei, che certamente li conosce e ce li dirà, i motivi per i quali il parere dei repubblicani è un parere con riserve, quello dei socialdemocratici è un parere con forti riserve e quello dei socialisti è talmente riservato che nessuno se ne è reso conto.
Per i repubblicani l’onorevole Biasini, che pure è un docente, ha dichiarato: «Noi non riteniamo che questo progetto risponda totalmente alle esigenze storiche del momento. Noi dobbiamo riconoscere certi limiti che si rinvengono nel provvedimento». Poi ha continuato affermando che il provvedimento è urgente. Sicché noi siamo digiuni delle motivazioni storiche del Partito repubblicano storico, non conosciamo i limiti ai quali l’onorevole Biasini ha alluso e non sappiamo perché questo progetto secondo i repubblicani non risponda totalmente alle esigenze del momento. Per i socialdemocratici hanno parlato l’onorevole Ceccherini e l’onorevole Reggiani. L’onorevole Ceccherini, che non mi sembra sia un docente, ma credo fosse soltanto un «guffino», un universitario dei tempi dei GUF, ha dichiarato: «I social-democratici si rendono conto che la riforma universitaria, così come oggi ci viene presentata dopo l’approvazione del Senato e con gli emendamenti proposti in Commissione alla Camera, non è il punto di arrivo che essi si erano prefissi». Quindi, non è un punto di arrivo, non sappiamo se sia un punto di partenza, non sappiamo quale distanza ci sia dalla partenza o dall’arrivo; sappiamo soltanto che l’onorevole Ceccherini fa parte anche lui della maggioranza quasi silenziosa; voterà, credo, in favore di questo disegno di legge perché fa parte dei partiti di governo, ma si riserva un giudizio quando saremo più in là.
Non mi sembra nel complesso che l’atteggiamento politico della maggioranza, onorevole ministro, sia tale da confortarla per il discorso che ella dovrà pronunziare in sede di replica. E adesso passo rapidamente alle posizioni che sono state assunte dalle due opposizioni collaborative o quasi collaborative che si sono ormai delineate in quest’aula: l’opposizione collaborativa comunista e l’opposizione quasi collaborativa liberale. I colleghi liberali sono usciti quasi tutti, ma non si offenderanno per questo mio giudizio perché esso emerge, onorevole Misasi, nella sua obiettività dagli elogi che i colleghi del Partito liberale si sono premurati di conferire alla sua persona. Io credevo che la sua corrente politica fosse molto lontana dalle correnti liberali e invece ella ha avuto una singolare fortuna: i colleghi liberali nel corso di questo dibattito hanno elogiato il suo zelo, la sua prudenza, il suo impegno. Indubbiamente sono elogi sinceri e senza alcuna contropartita, perché il Governo non è ancora in crisi e pertanto non è maturo per il momento per una eventuale entrata liberale nella maggioranza.
Quanto agli oratori di parte comunista, il loro atteggiamento verrebbe definito da me emblematico se io appartenessi, onorevole Misasi, alla sua corrente che usa di questi termini. Non dirò quindi che l’atteggiamento comunista è emblematico, ma che è significativo, e che uno Io dico sempre cordialmente e senza offesa tra i discorsi più divertenti che siano stati pronunziati in quest’aula, lo ha pronunziato un oratore di estrema sinistra: credo che si tratti di un indipendente di sinistra, ma penso che sia abbastanza dipendente, ideologicamente e politicamente parlando, dal gruppo del Partito comunista, l’onorevole Mattalia, che fra l’altro è un docente, un rispettabilissimo docente. L’onorevole Mattalia ha parlato della necessità che la legge sia sollecitamente varata, con quanto consegue in ordine alla imperiosa accipicchia! opportunità di evitare proposte e iniziative che possano ulteriormente ritardare o bloccare l’ iter della legge, o addirittura metterne in giuoco l’esistenza. E ha aggiunto che la serrata dialettica delle parti si deve considerare sostanzialmente conclusa nell’altro ramo del Parlamento, e che quindi è ridotto lo spazio di agibilità innovativa riservato alla Camera dei deputati.
Io voglio sperare che al Presidente Pertini sia sfuggita la gravità di questa dichiarazione perché lo so molto sensibile, giustamente sensibile, dei diritti e delle prerogative di questo ramo del Parlamento nei confronti dell’altro ramo. Però ho trovato queste frasi diligentemente riportate dagli stenografi; non mi sono avveduto che sia scoppiato alcuno scandalo e quindi debbo pensare che l’onorevole Pertini non abbia registrato affermazioni di questa gravità. Ma la dichiarazione che questa non solo è una legge urgente, ma che è talmente urgente che ci si può accontentare, anzi che ci dobbiamo accontentare, noi deputati, di quanto il Senato ha dialetticamente dibattuto e che il nostro spazio di agibilità è ridotto quindi alla pura e semplice approvazione di quanto l’altro ramo del Parlamento ha voluto decidere, questa affermazione ripeto mi ha profondamente divertito, anche perché, se fosse partita dai banchi della Democrazia cristiana, avrei detto che un ingenuo collega democratico cristiano ha voluto rendere un servigio al signor ministro, lo ha voluto togliere dagli impacci, ha voluto far sì che la legge procedesse dirittamente. Ma quando un discorso, un ragionamento, se lo si può chiamar tale, una suggestione ecco, chiamiamola così di questo tipo parte dai banchi dell’estrema sinistra, che dichiara di essere la ruggente opposizione nei confronti di questo sistema, di questo Governo, non tanto di questo ministro che forse gode delle simpatie all’estrema sinistra, allora non posso che divertirmi e considerare collaborativa la posizione reale del gruppo comunista. Debbo dire che è collaborativa non soltanto attraverso quanto ha dichiarato l’onorevole Mattalia, che potrebbe essere considerato un indipendente, ma anche attraverso quanto hanno dichiarato ben più responsabilmente il relatore di minoranza di parte comunista, l’onorevole Giannantoni, e il principale esponente, credo, del Partito comunista in ordine ai problemi della scuola e della università in particolare, l’onorevole Natta, che è intervenuto nel dibattito. Credo valga la pena di fermarsi su alcune tra le tesi sostenute dal gruppo comunista perché questo confronto di tesi e di idee mi sembra assai importante data la rilevanza generale dell’argomento.
Il relatore comunista, onorevole Giannantoni, ha ritenuto di dover tirare fuori, nei confronti di questo dibattito, una tesi che da sinistra viene agitata da qualche mese, e soprattutto da qualche settimana a questa parte, come la più insinuante tra le tesi che possono essere sostenute da sinistra, cioè la tesi del «patto costituzionale». Non crediate che voglia approfittare della occasione per una digressione su questa aberrante teoria per quanto attiene alla elezione del Capo dello Stato; se ne parlerà al momento opportuno, in sede opportuna. Mi riferisco a quanto il relatore comunista, onorevole Giannantoni, ha detto a questo esclusivo riguardo con la seguente formulazione. Il disegno di legge per la riforma dell’università è di straordinaria importanza; siccome è tale in quanto attiene ad un ordinamento che è poi quello base o l’ordinamento emblema di tutta la società, si tratta di una legge di portata costituzionale, anche se formalmente si tratta di una legge ordinaria; siccome si tratta di una legge di portata costituzionale, allora una specie di patto costituzionale dovrebbe formarsi intorno alla elaborazione di questa legge e quindi alla elaborazione di questa legge dovrebbero partecipare tutte le forze politiche che fanno parte del patto costituzionale.
Ora, se il relatore comunista avesse voluto semplicemente dire che la legge è tanto importante che alla elaborazione attenta di questa legge deve partecipare tutto il Parlamento, avrebbe detto una cosa che il signor de La Palisse avrebbe detto prima di lui con altrettanta chiarezza. Penso che l’onorevole Giannantoni abbia voluto invece dire che, essendo questa legge di portata costituzionale per i motivi che si sono detti, il gruppo comunista deve contribuire alla elaborazione del disegno di legge, non debbono esservi sbarramenti, né steccati.
Contrariamente a quanto l’onorevole Natta può pensare circa i miei orientamenti al riguardo, non avrei nulla in contrario a ritenere che il gruppo comunista abbia tutto il diritto di contribuire alla elaborazione di un disegno di legge di questo genere. Perché no? Però a questo punto si scoprono le carte e qualcuno dice: vedo. E allora si vede quello che c’è dietro la profferta comunista, cioè qual è il contributo che l’attuale gruppo comunista o l’attuale Partito comunista è nella volontà, è nella condizione di dare per la elaborazione di un disegno di legge di riforma dell’università. Ho cercato di studiare con una certa attenzione, con una certa diligenza e con il rispetto che è dovuto ad un grosso (non ho detto grande) partito politico, ad un grosso gruppo parlamentare, le tesi che sono state espresse in questa occasione dal Partito comunista e in particolare dall’onorevole Natta.
Ho trovato, onorevole Natta, qualche cosa che mi piace. Per esempio quando ella ha dichiarato qui il 26 ottobre (resoconto stenografico immediato): «Oltre a ciò, sulla scuola e sulla università vengono a pesare le resistenze, i rinvii, le contraddittorietà di una politica di riforme; giacché nella scuola si ripercuote il complesso di fenomeni che caratterizzano l’attuale crisi della direzione, o dell’egemonia culturale e politica del nostro paese e, dirò anche, dello stesso ordinamento democratico»; ebbene, quando esce in simili affermazioni, ella altro non fa che denunziare, sia pure in modi a guise diversi (ma ciò che importa è la sostanza, non il modo), quella crisi di sistema che anche noi ci siamo permessi di prospettare nella nostra relazione di minoranza. A noi fa piacere rilevare che la crisi del sistema, specialmente in ordine alla scuola e più particolarmente all’università, quella crisi le cui ripercussioni di fondo si manifestano sulla scuola in genere e sull’università in specie, venga rilevata (non ho detto «confessata», ma intendevo dirlo…) anche o forse soprattutto da parte comunista.
Si tratta di una posizione seria e rispettabile, certo più seria e rispettabile di quella dei colleghi democristiani che parlano di empirismo e pragmatismo in tema di riforma dell’università, più seria e rispettabile della posizione dei socialisti, dei socialdemocratici, dei repubblicani, che stanno sotto le gonnelle di mamma Democrazia cristiana tentando di farle commettere qualche errore di più… Sta di fatto, però, che da parte dei comunisti viene denunziata la crisi del sistema, di questo sistema, la crisi degli ordinamenti democratici. Ora, quando si sostengono tesi di questo genere, si ha il dovere di porsi su una linea di alternativa, e non di alternativa generica. La logica del Partito comunista, anche se ingenua, potrebbe essere apprezzabile se quel partito rivelasse la volontà e la capacità di collocarsi in una posizione di alternativa nei confronti della società attuale. Ma il suo discorso, onorevole Natta, rivela che nemmeno il Partito comunista ha il coraggio di assumere una posizione di antitesi e di alternativa nei confronti di questo disegno di legge, di questa riforma universitaria, di questa scuola.
Voi, colleghi comunisti, non siete più sulle posizioni di contestazione globale sulle quali eravate stati trascinati nel 1968!. Avete riconosciuto criticamente, ve ne do atto, il dissolversi o l’esaurirsi di quel moto di contestazione e appunto per questo siete oggi, a vostra volta, contestati da sinistra, come è accaduto anche in questa aula da parte dei deputati del Manifesto, dei cui interventi mi occuperò più avanti. Ma se da sinistra siete contestati, colleghi comunisti, e se a vostra volta vi ponete come contestatori nei confronti dei partiti di Governo, dovete pur dire in che cosa vi distinguete dalla contestazione del 1968 e quali sono i motivi positivi della vostra contestazione. A che cosa mirate? Se vi opponete, o per meglio dire vi distaccate e vi dissociate responsabilmente dalla contestazione negativa e di struggitrice del 1968; se ritenete di non essere d’accordo con coloro che erano contrari alla cosiddetta «meritocrazia» e ad una scuola selettiva; se ritenete di non essere d’accordo con una concezione ortodossamente, ma certo ingenuamente e arcaicamente classista e marxista, quella dei colleghi del Manifesto, non dite però nulla, non dite più nulla, non siete più un partito rivoluzionario né un partito aperto alle spinte della società, ma soltanto un partito che arranca verso il tentativo di conquistare posizioni di potere insieme con quelle altre forze che voi criticate. Questa è la realtà. L’equazione fra «Partito comunista» e «partito conservatore» italiano (l’uno e l’altro ravvisabili sotto la stessa sigla: PCI) vi si attaglia proprio in ordine a questi problemi che riguardano la gioventù. Avete bruciato e gettato al vento i vecchi miti, senza che il loro posto sia stato preso da nuovi ideali. Prospettive in tal senso non emergono dall’intervento dell’onorevole Natta, nel quale vi sono soltanto tortuose affermazioni tendenti da un lato a criticare il disegno di legge e dall’altro lato ad inserire nel quadro del provvedimento portato avanti dal centro-sinistra non vostre tesi, colleghi comunisti, ma vostre posizioni politiche. In sostanza voi mirate, attraverso le tesi portate avanti nella discussione sulle linee generali e che saranno riprese negli emendamenti agli articoli, la cui sostanza già conosciamo, a far sì che il potere politico controlli dall’interno l’università. È questo il fine a cui tendete. Voi non volete la partecipazione alla vita dell’ università da parte dei discenti e dei docenti, sia pure nel quadro di una società vista da voi, in questo caso legittimamente, da sinistra, secondo gli schemi marxisti. Voi perseguite soltanto un fine di esercizio del potere politico, anzi partitico, anzi partitocratico nell’università.
I vostri emendamenti a questo tendono. Non tendono né alla cultura, né al sapere, né ad un nuovo rapporto umano fra docenti e discenti, né ad una nuova visione della società, della vita, del mondo: tendono soltanto a far sì che dalla conflittualità disordinata che la contestazione ha portato nelle università si passi all’imperio tassativo del Partito comunista o dei partiti di estrema sinistra o dei sindacati dei partiti di sinistra e di estrema sinistra all’interno dell’università. Questa è la trasparente manovra comunista. Sicché da un lato abbiamo lo squallido pragmatismo dei democristiani, ma dall’altro abbiamo tutta una serie di attentati contro la gioventù e contro i docenti che si compiono o si tenta di compiere da parte comunista. Quanto ai liberali, ho già risposto loro precedentemente per quanto riguarda la loro battaglia di fondo, che è quella relativa alla abolizione del valore legale dei titoli di studio. Per il resto debbo rilevare che anche il gruppo liberale, forse per una preoccupazione diversa e contraria, ma analoga nella spinta a quella comunista, cioè per una preoccupazione di inserimento, concede troppo al pragmatismo e troppo si discosta da quelle che dovrebbero essere e sono state in molte occasioni le sue tradizioni di attaccamento allo Stato: non allo Stato che controlli, soverchi e sovrasti, ma quanto meno allo Stato che indirizzi, promuova e coordini.
Debbo dire che mi hanno molto interessato, forse proprio per gusto se mi consentite di studio e di ricerca più ancora che per gusto strettamente politico, le posizioni assunte in ordine a questo disegno di legge dal gruppo socialproletario e dai deputati del Manifesto. Mi hanno molto interessato sia detto ancora una volta senza offesa non perché in termini politici si possa in questo momento attribuire soverchia importanza alle prese di posizione del gruppo socialproletario su questo disegno di legge e tanto meno forse alle posizioni del Manifesto, che sembra stia trasformandosi in partito politico (e farebbe bene a trasformarsi in partito politico e ad assumersi le relative responsabilità), ma perché tanto i colleghi del gruppo socialproletario quanto i colleghi del Manifesto si sono riferiti (e non potevano fare diversamente) alle posizioni del 1968, hanno mitizzato il 1968 dell’università italiana, della scuola italiana in genere, hanno quasi voluto contrapporre un 1968 «rosso» italiano, al famoso 1968 «tricolore» francese, e perché essi stessi pur mitizzando il 1968 dell’università italiana sono stati costretti a qualche severa autocritica, a qualche confessione illuminante. Per questo ritengo che siano interessanti i discorsi che essi hanno pronunziato. Per cominciare con il relatore del gruppo socialdemocratico, l’onorevole Sanna, la cui relazione mi debbo sinceramente congratulare è assai impegnativa ed ampia, oltre che densa di concetti, desidero ricordare che egli ha dichiarato che «la riforma dell’università deve essere una leva per cambiare la società». È una dichiarazione interessante, che noi accettiamo, se si parte da una tesi di contestazione nei confronti della società attuale. Ma anche se si parte da una tesi di parziale contestazione nei confronti della società attuale, è onesto concepire una riforma dell’ordinamento universitario come una leva per cambiare, naturalmente in meglio, la società.
Aggiunge l’onorevole Sanna: «Le disfunzioni dell’università si collocano infatti tra le contraddizioni della società capitalista e sono intimamente legate al ruolo che ad essa assegnano le classi dominanti». Ebbene, i colleghi del gruppo socialproletario e quelli del Manifesto, la sola estrema sinistra rimasta politicamente in Italia, essendo il resto «partito conservatore italiano» e non più «Partito comunista italiano», partito cioè privo di qualsivoglia spinta ed aspirazione rivoluzionaria, i colleghi di codesta combattiva, pugnace, insolente nei miei confronti (ma non me ne importa nulla), ma comunque rispettabile, in termini politici, estrema sinistra residua in Italia, dovrebbero avere la bontà di spiegarmi (è una domanda alla quale non chiedo risposta, è una domanda, al solito, che pongo alla mia coscienza, perché non riesco a comprendere, certo per mia immaturità) se si possa davvero parlare in Italia oggi di una scuola o di una università in crisi per esclusiva colpa della crisi insorta nella società capitalistica o se per avventura i demeriti non debbano essere distribuiti tra la società capitalistica, senza dubbio in crisi, e la larghissima espansione del marxismo in Italia in questo dopoguerra, da 25 anni senza alcun dubbio a sua volta in crisi. Perché se è vero, se è indubbiamente vero che la società capitalistica non è riuscita a partorire in questi 25 anni un rispettabile, producente nel quadro di quel sistema tipo di scuola, è certamente vero anche che la forte, la fortissima, la formidabile, la massiccia presenza, specie al livello di scuola, sia di scuola media, sia di università, del mondo marxista non è riuscita fino ad ora che ad aggravare i problemi, rendendoli in taluni casi, cronici, nonché ad accentuare il disorientamento delle giovani generazioni, ed a rendere la scuola ancora più estranea alla società.
Quindi, se voi vi fermate nella vostra critica ad una parte pur legittima della stessa, ma non procedete ad una autocritica e non cercate di vedere che cosa ci sia di rancido, di stantio, di vecchio, di inattuale, di non proponibile alle giovani generazioni, nelle vostre stesse concezioni, allora voi restate fermi al vostro cosiddetto glorioso 1968 che si è esaurito, che si è estinto, che non interessa più nessuno. Mi sembra che dimostri questo ciò che voi stessi dite quando affrontate i problemi un poco più da vicino. Cito sempre la relazione, per altro pregevole, dell’onorevole Sanna, il quale, credendo di mettere in rilievo la crisi del mondo o del sistema capitalistico, afferma: «Quando più si allarga l’università tanto più agiscono i meccanismi di selezione e cioè il censo e la didattica». Ora, è esattamente vero che il censo è un meccanismo di selezione alla rovescia. È vero anche che un meccanismo di selezione che si impernia sul censo è un meccanismo di selezione da respingere in toto, proprio perché non seleziona, perché impedisce la selezione vera, che consiste, come mi sono sforzato di sostenere nella mia modesta relazione di minoranza, nella trasformazione continua, perenne della quantità in qualità.
Ma porre sullo stesso piano la didattica, ritenere cioè che la didattica sia un sistema di selezione tale da dover essere condannato, e non sapere poi spiegare quale nuovo tipo e schema di didattica debba essere sostituito all’attuale, tutto questo denuncia il vuoto delle vostre posizioni, colleghi dell’estrema sinistra, cosiddetta rivoluzionaria! E non è che non vi sia un tentativo da parte vostra: sempre nella relazione dell’onorevole Sanna, leggo che «si è venuta sperimentando e affermando un’altra didattica attraverso i seminari di studio». Quali seminari? I seminari di cui parlava la riforma Gentile e che lo riconosco io stesso ebbero scarsa attuazione successivamente? Comunque quei seminari erano intesi in guisa non molto lontana da quella in cui dovrebbero essere intesi, specie se facoltativi, i futuri dipartimenti. Ma di quali seminari si parla da parte dei colleghi socialproletari e del Manifesto allorché si afferma che in codesti seminari si è instaurato un nuovo e più producente tipo di didattica? Io so che l’onorevole Niccolai, qui presente, vi ha dato un saggio, che non ripeto (anche per non essere costretto a far siglare alle gentili stenografe le parolacce che sono state costrette a siglare quando ha parlato l’onorevole Niccolai), di quel che siano taluni seminari nati, all’insegna del glorioso 1968, purtroppo in parecchie università italiane. A quali seminari si allude? Si allude al sistema, così largamente in vigore, delle lauree false, degli esami non facili, ma falsi, non addomesticati, ma chiaramente “fasulli”; si allude a quel volgare sistema, non di facilitazioni, ma di imbrogli, che si è affermato per colpa di certi tipi di contestazione in tanta parte delle università italiane? Di questo si vuole parlare, è questa la nuova didattica che si vuole sostituire all’antica? Oppure si vuol parlare di una didattica di gruppo, di équipe, alla quale noi non siamo contrari, purché naturalmente venga inserita ed instaurata nei dipartimenti scientifici (sarebbe molto più difficile inserirla ed instaurarla nei dipartimenti umanistici)? Ma si tratterebbe, al più, di un perfezionamento tecnico, di una innovazione tecnica, di un più attento studio dei modi e dei metodi. È mai possibile che l’estrema sinistra rivoluzionaria, quando si tratta di proporre una sua alternativa nel quadro di un problema così importante qual è quello della riforma della scuola e dell’università, altro non sappia che proporre di sostituire la didattica di seminario alla didattica attuale? È mai possibile che questo topolino sia generato dalla montagna di disordini che avete portato nelle scuole, nelle università, che ancora continuate a portare e che annunziate, nei vostri discorsi, di voler continuare a portare nelle scuole italiane? È mai possibile che vi esprimiate con tanta leggerezza nel momento stesso in cui i fatti vi costringono all’autocritica, perché perfino voi dichiarate di essere contrari agli esami facili o facilissimi di questi ultimi tempi? Sicché, se non vi è alcuna tesi, non dico rivoluzionaria, ma neppure aperta ad una prospettiva da parte dell’ormai conformistissimo Partito comunista italiano, non ve ne sono neppure da parte del gruppo socialproletario e dei deputati del Manifesto.
Con questo, onorevoli colleghi, ho esaurito la parte critica della mia esposizione, e sarò estremamente conciso nel riferirmi alla parte positiva perché, signor Presidente, ho compiuto almeno in parte il mio dovere attraverso la relazione scritta, che ho affidato alla cortese lettura del signor ministro e dei colleghi.
Circa la parte positiva, vorrei semplicemente limitarmi ad alcuni concetti. In primo luogo, vorrei rivendicare di fronte a tutta la Camera, quali che siano le opinioni di ciascuno perché se si distorce l’uso del vocabolario diventano impossibili il colloquio, la dialettica, e persino la polemica il corretto uso del termine «corporativo». I colleghi di tutte le parti politiche, da quella comunista fino a quella liberale, hanno infarcito i loro discorsi con uno scorretto uso di questo termine (e dico scorretto riferendomi soltanto all’uso del vocabolario). Lo ha fatto anch’ella, signor ministro, e non gliene faccio un addebito, perché questa è la moda corrente: però vorrei spiegare qual è il valore che tutti attribuiamo a questo termine, perché ci si possa capire. Tutti i colleghi hanno continuato ad usare questa parola nel senso esattamente opposto a quello che essa vuole avere, anche in senso storico (ed ai colleghi di parte democristiana il senso storico del termine «corporativo» non dovrebbe sfuggire); voi attribuite cioè al termine «corporativo» il significato di «settoriale», mentre esso ha un significato esattamente opposto, perché vuol dire superamento del settorialismo. È un’accezione politicamente non favorevole alle nostre tesi (ma io non mi sogno neppure di sollecitare da voi una interpretazione favorevole alle nostre tesi). Questa parola vuol dire, per lo meno, «coordinamento degli interessi settoriali», per l’appunto nel senso di capacità di articolare quello che è disarticolato, di mettere ordine in quello che è disordinato, ed anche di reprimere quelle spinte che potessero essere turbative dell’ordine e dell’armonia dell’intero sistema. Ordine corporativo significa questo; e badi, signor ministro, che io non sono polemico in questa parte della mia molto polemica esposizione, perché non sto facendo la difesa del sistema corporativo quale fu: non mi sogno di farla, non la farei, e non la sto facendo neppure in pubblici comizi perché ritengo che il sistema corporativo quale fu nel ventennio non abbia attuato se non in parte quella che era e rimane l’originaria ispirazione corporativa. Mi riferisco qui all’originaria ispirazione corporativa, che non ha i suoi testi ed i suoi autori soltanto in quella parte di tradizione nazionale che ci viene attribuita, ma anche in una parte di tradizione nazionale, culturale e sociale che voi democristiani vi attribuite normalmente. Io penso che la citazione della Rerum novarum sia d’obbligo quando si usano termini del genere e che il ricordo della scuola corporativa cattolica di Malines non sia sgradito anche ai più avanzati tra i portatori delle tradizioni cattoliche. Quando noi parliamo di concezione corporativa ci riferiamo, dal punto di vista tradizionale, a tutto il grande e glorioso filone corporativo, che dalla Rerum novarum è arrivato, attraverso il sindacalismo nazionale, fino alle espressioni corporative dello Stato, sia pure parzialmente o malamente attuate, e che continua con la nostra battaglia. Quando, riferendomi alla scuola, io parlo di ordine corporativo voglio attribuire un senso morale a quel termine di partecipazione che avete adottato voi e che abbiamo adottato anche noi, e che deve costituire uno dei cardini delle impostazioni positive più nobili e pregnanti di una riforma universitaria. Partecipazione sì, ma partecipazione con ispirazione corporativa, cioè antisettoriale, partecipazione al di sopra dei settori, con una forza coordinante ed armonizzante che ristabilisca nella scuola il rapporto umano tra docente e discente. Ecco la partecipazione corporativa nella scuola; non soltanto la partecipazione numerica e quantitativa, e tanto meno la partecipazione conflittuale e rissosa degli studenti da un lato, dei docenti dall’altro, del personale amministrativo, o di tutti insieme, in «parlamentini» che trasformino la partecipazione in una continua dissociazione. No: se la partecipazione deve diventare associazione di responsabilità, è una ispirazione corporativa vi piaccia o no che la deve muovere, spingere, stimolare e sollecitare. Questo è uno dei nostri concetti di fondo.
L’altro concetto di fondo è quello selettivo, che ci permette di superare agevolmente le apparenti contraddizioni tra scuola di massa e scuola di élite, che ci permette di dire che siamo favorevoli come dobbiamo essere civilmente favorevoli ad una scuola e ad una università aperte davvero a tutti, in grado di mettere tutti i giovani capaci e meritevoli (e il «capaci e meritevoli» sia costituzionalmente interpretato nella maniera più giusta) al riparo da ogni discriminazione di qualunque specie, da ogni discriminazione di casta, di classe o politica. La scuola deve mettere davvero tutti i giovani meritevoli e capaci nella condizione di accedere fino al più alto vertice della scienza e della cultura o, comunque, fino al più alto vertice degli studi. Non si può non essere civilmente favorevoli a un simile tipo di scuola; ma quanto più si è favorevoli ad una scuola aperta, tanto più si deve essere favorevoli ad una scuola selettiva, nel significato morale e spirituale che abbiamo detto; quanto più si è favorevoli ad una scuola non discriminante, dal punto di vista materiale, tanto più si deve essere favorevoli ad una scuola capace di discriminare nel senso dei valori spirituali. Giacché la vita è selezione di valori, che si debbono affermare dalla base al vertice; non debbono esservi ostacoli di diritto o di fatto. Vi sono i naturali ostacoli che Iddio ha posto fra uomo e uomo, non rendendoci tutti capaci delle stesse imprese né capaci di imprimere a noi stessi la medesima formazione culturale, il medesimo impeto di dottrine e di insegnamenti.
Ecco: una scuola basata sulla partecipazione corporativa, sulla selezione dei valori, è una scuola attrezzata tecnicamente a imprese del genere. Mi rendo perfettamente conto che è molto facile (come avrà ragione di rispondere l’onorevole ministro) da parte di un gruppo di opposizione chiedere che l’università italiana venga rapidamente attrezzata, per poter essere davvero aperta a tutti, selettrice onesta e seria di tutti i valori, capace di dispensare titoli che non siano pezzi di carta, e inserita nella società. Ma questo è il più alto compito sociale che l’ attuale regime (lo dico fuori da ogni polemica), ossia che tutti noi insieme partiti di governo e partiti di opposizione possiamo avere. Non c’è legge più importante di questa, perché non c’è legge che più di questa guardi verso il futuro. Noi siamo responsabili adesso non dell’ordinamento universitario dell’anno prossimo o dei prossimi anni (sicché è veramente assurda la fretta di alcuni settori). Noi siamo responsabili in questo momento verso le generazioni che verranno, noi creiamo in questo momento, o distruggiamo, la possibilità per l’Italia di avere una classe dirigente a livello culturale e quindi a livello politico; se non vogliamo stabilire diaframmi fra cultura e politica, se non vogliamo cacciare di qui i docenti cacciando, in sostanza, anche l’intelligenza, la cultura, la capacità dall’università italiana, noi dobbiamo legiferare in prospettiva. E allora i mezzi occorre che si trovino. Non voglio essere né polemico né irriguardoso a questo proposito, non voglio dire donde si potrebbero trarre i mezzi, da quali settori del sistema si potrebbero trarre in abbondanza i mezzi per far funzionare tecnicamente una rinnovata università italiana. Voi sapete che abbiamo ragione quando diciamo che i mezzi si possono reperire, che i mezzi si debbono reperire, e che gli strumenti debbono esservi. E allora, una scuola a larga partecipazione corporativa nel senso che mi sono permesso di restituire a questo termine, pulendolo da viete polemiche di parte; una scuola selettiva, una scuola tecnicamente attrezzata, ecco il disegno dell’università al quale noi guardiamo. E soprattutto una scuola che moralmente riceva l’esempio dalla classe dirigente del nostro paese.
Ho sentito con commozione dal collega liberale, onorevole Mazzarino, che mi ha preceduto, citare parecchie volte il nome di Francesco De Sanctis e mi permetto al riguardo, signor ministro, di ricordarle cose che certamente ella sa, ma che è bello ricordare a noi stessi nel momento in cui ci accingiamo a continuare, nell’esame degli articoli, il dibattito su questa legge. Mi permetto di ricordare a me stesso un episodio illuminante del nostro Risorgimento, quando Francesco De Sanctis, appena uscito dalle carceri borboniche, non riusciva a trovare in alcuna parte d’Italia cattedra dalla quale insegnare. Egli andò a Torino, ma non perché il governo piemontese avesse avuto il coraggio di assumere il professor De Sanctis patriota, ma perché gli studenti dall’ateneo di Torino si quotarono per pagare essi lo stipendio al professore De Sanctis. Nacquero da quell’incontro tra docente e discenti le miraboli lezioni del De Sanctis sull’Inferno di Dante. Mi si dirà: sarebbero nate ugualmente. Io non lo so. Ho la sensazione che quelle pagine siano scaturite così mirabili le più alte pagine della critica letteraria italiana proprio da un incontro morale, prima ancora che culturale, tra il docente che sapeva di essere amato oltre che capito, stimato e apprezzato dai discenti, e i discenti che vedevano nel docente il maestro.Auguriamo all’università italiana un simile destino, ma per poterlo augurare all’ università italiana auguriamo allo Stato italiano.”
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